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Archive for I mestieri del cinema

Il film interminabile. Un esempio di rielaborazione filmica

Fuochi fatui
di Fabio Matteuzzi
Nel 2008, Dario Marzola ha realizzato Fuochi fatui, un film sperimentale di 35 minuti prodotto da Horizon. Il protagonista è un giovane architetto che soffre da una rara malattia che gli impedisce di distinguere i volti delle persone. Questa difficoltà, che gli impedisce anche di riconoscere i volti delle persone che ama, lo induce a nutrirsi di emozioni, di presenze incerte, di sensazioni che lo risospingono ai ricordi dell’infanzia.
La traduzione di questo tipo di cecità attraverso un racconto visivo è stato sicuramente uno stimolo forte che ha portato il regista a cercare difficili equilibri tra narrazione, visione e l’impossibilità di vedere. Tutto ciò ha portato a realizzare un mediometraggio in cui il rapporto tra emozioni, sensazioni, immagini, percezioni si lega a visualizzazioni incerte e parziali, grazie anche all’uso di primissimi piani, e infine a una consapevolezza della complessità sinestetica.
Dario Marzola deve avere pensato che il cinema possieda davvero una grande virtù: quella di permettere di trasformare più volte, di metamorfizzare, di fare cambiare di segno, giocando e facendo registicamente sul serio, la storia da raccontare. Tutto questo avvalendosi naturalmente delle opportunità offerte dal montaggio, dal punto di vista squisitamente tecnico.
Dopo avere lavorato alla realizzazione di Fuochi fatui decide di riutilizzare il materiale girato smembrandolo e ricomponendolo in tre possibili storie, che in Fuochi fatui erano intrecciate, pensate ed elaborate per rimandare le une alle altre, stimolando lo stesso spettatore a compiere parte di questo lavoro di connessione, e che ora acquistano una propria autonomia. Tornano a staccarsi dall’insieme in cui erano confluiti.
Così riprende in mano il materiale girato, e montato, un materiale che ha già una sua compiutezza consistente in un film apparentemente chiuso, in un progetto che ha visto una sua elaborazione, un suo sviluppo e una sua fine, per una nuova rielaborazione.
Un film, si potrebbe dire, non è mai concluso. In questo caso viene ripercorsa l’opportunità di dargli una nuova vita, soprattutto una vita differente. In questo caso non è solamente in gioco l’insoddisfazione del regista davanti alla propria realizzazione, l’istinto a cambiare ancora, a togliere, aggiungere, mutare, insomma perfezionare quello che fino a quel momento è stato fatto. C’è dell’altro, e questo altro è legato alle varianti narrative in gioco e al mutamento della struttura narrativa. Ritornare agli elementi narrativi del film appena compiuto per smembralo nuovamente e fare, con questi stessi elementi, tre cortometraggi differenti non vuole dire riscrivere tutto, ma offrire nuove opportunità alle storie narrate, ai personaggi stessi.
Forse in tutto questo è anche facile intravvedere il segno di una difficoltà, quella del regista che non riesce ad abbandonare le storie contenute nel film che lo ha impegnato. Storie che continuano a ossessionarlo, scelte scartate che rivendicano ancora una loro presenza, pretendono ancora attenzione. Il film è terminato ma c’è ancora di che essere insoddisfatti. Fuochi fatui, il film – da solo – non dà testimonianza a sufficienza di questi personaggi, dei loro sentimenti, delle loro evocazioni attraverso il tempo e lo spazio. Né, tantomeno, del rapporto artistico e creativo del regista con i suoi personaggi mediati e fatti vivere attraverso gli attori.
Marzola sente dunque l’esigenza di smontare il film da poco terminato per farne tre cortometraggi differenti che in parte seguono vicende degli stessi personaggi, riprendendo situazioni ma cambiando i rapporti tra i personaggi. Viaggio all’interno di una storia o di più storie, della possibilità di unirsi o di dividersi, dando più spazio a un aspetto o no. Viaggio all’interno di atti quotidiani che solo la superficialità può considerare “banali”. Atti che possono essere compiuti o non compiuti orientando così quello che segue. Viaggio anche all’interno del fare cinema. Cinema-laboratorio, elaborazione che porta in sé una vertigine: quella di non riuscire mai a liberarsi dei personaggi e delle storie di cui sono portatori e, per certi aspetti, vittime. Prima di qualsiasi considerazione critica, l’operazione in sé richiama immediatamente la difficoltà di quelle scelte registiche e drammaturgiche che comportano l’eliminazione di un insieme che comprende intenzione registica, costruzione narrativa riguardante le vicende dei personaggi e, quindi, drammaturgia.
Quindi, alla fine, non c’era un’unica storia da raccontare, ma scelte da operare. Forse c’era molto altro che poteva essere narrato o che poteva essere maggiormente sviluppato.

La forza e la labilità delle percezioni è un doppio aspetto in cui si dibattono i protagonisti dei tre cortometraggi. Siamo su una soglia incerta in cui alla forza delle percezioni è strettamente abbinata una debolezza che fa dubitare perfino di se stessi. Forse è proprio questo stesso filo conduttore che stimola e permette la rielaborazione filmica, il fatto che tutto, in fondo, sia basato sull’incertezza dei sensi, dei ricordi, sulla stranezza delle storie (quella delle formiche volanti che vanno a riprodursi e morire, ogni anno, su un colle, nei dintorni di Bologna), su immagini provenienti dall’infanzia, su immagini che stanno al confine tra realtà e fantasia, sull’impossibilità di vedere realmente, nel momento stesso in cui si osserva.
Il lavoro registico e quello di scrittura è allora anche quello di comprendere le connessioni e le fratture tra un corpus narrativo che permette unificazioni e distante spaziali e temporali. Quando storie diverse entrano a fare parte di un’unica storia perché parte di un vissuto contiguo, possono mantenere comunque una propria autonomia. Marzola ha lavorato proprio su questa connessione-scissione, su uno scorrimento narrativo che passa dall’unità alla segmentazione, e tuttavia pretende di fare parte di un insieme.
“Worn by time”, “Memorare” e “Lamia” – questi i titoli dei tre corti – posseggono qualcosa di questo insieme, eppure Marzola non li porta a intrecciarsi narrativamente tra loro, semmai – al massimo – a evocarsi l’un l’altro, mantenendo cioè la leggerezza e incertezza percettiva, piuttosto che la certezza narrativa o figurativa.

Worn by time
regia  Dario Marzola
sceneggiatura Dario Marzola e Roberta Romagnoli
musica: Fabrizio Fontanot
prod. Alessandro Carroli
set designer: Francesco Gualdi
fotografia: Michele D’Attanasio, AIC
montaggio: Antonella Bianco
Horizon 2011, 14′ 31″
cast: Marco Continanza (Emanuele), Cristiana Raggi (Francesca), Tanino De Rosa (neurologo)

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Memorare
regia Dario Marzola

cast:

Davide Morale (Emmanuele bambino), Valentina Masi (madre), Marco Continanza (Emmanuele), Cristiana Raggi (Francesca), Neri Barocci (Giovanni bambino)
sceneggiatura: Dario Marzola
fotografia: Michele D’Attanasio
musica: Fabrizio Fontanot
montaggio Antonella Bianco, Dario Marzola
Horizon 2011 , 8′ 07″

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Lamia
regia Dario Marzola

cast
Cristiana Raggi (Lamia), Marco Continanza (Emmanuele), Anna Copernico (voce della vecchia), Marcello Moronesi (voce altro amante)
sceneggiatura Dario Marzola
fotografia: Michele D’Attanasio
Musica Fabrizio Fontanot
montaggio: Antonella Bianco, Dario Marzola
Horizon 2011, 10′ 46″

Pupi Avati tra autobiografia e finzione. Parenti, amici e altri estranei

Set_Gli_amici_del_bar_Margherita_2009_fotografia_di_Andrea_Catoni

 di Jessica Pini

Per una parte della critica l’opera di ogni artista non può prescendere da cenni autobiografici più o meno consapevoli. E il cinema di Pupi Avati sembra proprio avvalorare questa tesi in un fitto intreccio tra la vita autobiografica del regista e la realtà inventata dei suoi film. Un intreccio ripercorso nella mostra Pupi Avati. Parenti, amici e altri estranei, curata dal giornalista e critico cinematografico Andrea Maioli per la Cineteca di Bologna (Bologna, palazzo D’Accursio 2 che2 giugno – 14 agosto 2014), dove, attraverso la suddivisione in nove sezioni tematiche, si dipiegano i legami tra il regista e i suoi personaggi, reali o inventati. La mostra propone infatti una selezione di foto di scena dei film diretti da Avati raffrontate con alcune delle immagini personali, dell’archivio romano di famiglia, aperto al curatore da Pupi e dal fratello Antonio. Un percorso parallelo tra finzione cinematografica e momenti di vita vissuta in cui spesso le immagini si sovrappongono con volti e situazioni riemergono nella creazione filmica. Una pellicola srotolata guida il visitatore tra film, fotografie, sogni e realtà: come recita il sottotitolo di questo omaggio a un a utore che si è mosso, racconta Maioli «sulla linea di confine, spesso linea d’ombra, tra reale e irreale, tra biografia e fanta-biografia, tra verità e bugia. L’autobiografismo dichiarato nasconde trappole e trabocchetti. È tutto vero si affretta a dichiarare l’autore, ma non credetegli. La sua memoria cinematografica e visionaria si compone di tasselli che vanno a formare un puzzle più complesso di quanto possa sembrare a una frettolosa e disattenta visione. Smarrisce volontariamente i confini dell’autobiografia per attingere a quelli della fantasia, dando vita di volta in volta a una creatura di Frankenstein che si compone di frammenti di pelle e di vissuto».

E del resto è lo stesso Federico Fellini che ci mette in guardia (o volutamente ci depista) quando diceva che il regista è un grande bugiardo, finendo poi per celare dietro le sue storie visionarie e oniriche  riferimenti privatissimi, come di ricente rivelato da Gianfranco Angelucci in Segreti e bugie di Federico Fellini

Le nove aree tematiche della mostra vanno dai volti umani, talvolta grotteschi, in abiti vintage o di carnevale di Parenti, amici e altri estranei alle foto di gruppo (Sorridete…); c’è poi Interno-Esterno, i due poli di una sceneggiatura cinematografica, con ambienti di case vecchie e moderne o abitazioni viste dall’esterno e paesaggi, per rientrare nelle case con il rito di famiglia per eccellenza, A tavola! e il ballo (Avvolti nel tepore del ballo). Almeno una volta nella vita ci sono poi due appuntamenti ineludibili, o quasi, il matrimonio e la morte. E qui si pone la Questione di fede: credere o non credere! Si prosegue ancora Sulla strada e Altrove. Infine il percorso si conclude con la riproduzione di una “via degli angeli”: una parete di ritratti di amici e parenti incontrati dal regista nel corso della sua vita che realmente converva nella sua stanza da letto come una sorta di Camera verde alla Truffaut.

Una_gita_scolastica_1983_fotografia_di_Steno_Tonelli

Ines_Vignetti_mamma_di_Pupi_e_Antonio_Bologna_1919

Balsamus_l_uomo_di_Satana_1970_fotografia_di_Steno_Tonelli

Avati_Tognazzi_set_Ultimo_minuto_1987

Angelo_Avati_mamma_di_Pupi_e_Antonio_Bologna_1915

Rheno_Dixieland_Jazz_Band_Madrid_1961

Pupi_Avavti_bambino_via_San_Vitale_Bologna_1944

La_via_degli_angeli_1999_fotografia_di_Piero_Salvatore_Abate

La_rivincita_di_Natale_2004_fotografia_di_Philippe_Antonello

Intervista a Marco Biscarini – Comporre musica per il cinema

biscarini

 di Giacomo Rita e Andrea Cioni

Fuori Vista:  Quali sono state le principali esperienze formative che l’hanno portata a lavorare come compositore per il cinema?

Marco Biscarini: Il corso estivo all’Accademia Chigiana, tenuto da Ennio Morricone e Sergio Miceli verso la metà degli anni Novanta, è stato il mio primo approccio alla musica per film. Ho frequentato il Dams Musica e ho fatto studi di composizione. Mi sono diplomato in musica jazz e in musica elettronica, per avere un panorama globale di quello che poteva essere il significato contemporaneo del comporre, ed effettivamente questo tipo di formazione rispecchia la figura professionale del compositore da film, che deve saper creare ma anche realizzare e produrre. Ero molto curioso, non mi bastava il linguaggio della composizione contemporanea del Novecento, volevo esplorare altri “generi” ed approcciarmi anche a registri diversi; così, ad esempio, ho lavorato come arrangiatore nel mondo del pop e per il festival di San Remo. Da tutto questo è nato poi il mio stile compositivo, che si è espresso al meglio nei film di Giorgio Diritti.

F.V. Ha avuto un maestro o una figura di riferimento in particolare durante il suo percorso formativo e professionale?

M.B. Di maestri ne ho avuti tanti, ma devo dire che Morricone, nel suo essere molto parco e misurato,è stato un esempio capace di sbloccare qualcosa in me. Mi ricordo bene questa sua frase: “per fare un pezzo basta un’idea. Tutto il resto è superfluo”; mi fece comprendere la necessità di “asciugare”. Facendo i conti con quelle che sono le richieste cinematografiche, soprattutto di un regista come Diritti, io penso proprio che la composizione sia soprattutto “sottrazione”, cioè quello che rimane di un’idea molto complessa, ridotta quasi all’essenziale. Credo che questa sia anche la risposta a cos’è la musica per il cinema oggi: deve essere presente ma mai invasiva rispetto all’immagine.

F.V. Qual è la differenza tra comporre una musica pensata fin dall’inizio come “applicata” (cioè creata in funzione di qualcos’altro) e una musica che nasce invece come “assoluta” (quindi fine a sé stessa e del tutto autonoma)?

M.B. Il punto di partenza è identico. All’inizio ti metti al lavoro per un film pensando semplicemente di scrivere musica, poi a un certo punto succede qualcosa di misterioso: il film ti chiede un azzardo, ti chiede di cambiare strada, di prendere un sentiero inesplorato. In quell’azzardo, che non avevi previsto e che non avresti mai fatto per una musica “assoluta”, c’è la “verità” della musica per film; bisogna mettersi sempre in gioco: il tuo linguaggio si deve evolvere nel film e trasformarsi, non cerchi mai delle conferme ma provi sempre a metterti in discussione. Credo che spesso questo lavoro venga spiegato male; si dice: “scrivi delle belle melodie, puoi fare musica per film”, ma non è quella la componente distintiva della musica per film. Faccio un esempio. Nell’estate del 2008, quando lavoravo a L’uomo che verrà, visitai il set e piombai in questa casa di campagna che stavano allestendo: tappezzavano tutto di fogli di giornale per dare l’idea dell’umidità di questi luoghi, come poteva essere una casa del 1944. Questo concetto di umidità mi colpì immediatamente, tanto che tornai subito in studio e mi venne l’idea delle gocce d’acqua, che accompagnano tutto il film. Ecco, in quel momento è scattato l’azzardo. Sulla sceneggiatura avevo già scritto delle idee musicali, ma lo spunto di queste gocce d’acqua, che sono gocce di umidità ma che diventano anche gocce di sangue quando c’è la strage, e assumono quindi un ruolo drammaturgico nel film, è stato la chiave che ha portato la colonna sonora de L’uomo che verrà a decollare.

F.V. E’ una soluzione quasi a cavallo tra musica in senso stretto e sound design.

M.B. Sì, e qui tornano i conti anche con la mia formazione elettronica. Mi piace molto lavorare con i suoni concreti, non solo come sfondo ma proprio come parte integrante della musica, come strumenti veri. In Un giorno devi andare ho lavorato sui respiri della donna, sul battito del cuore e sui suoni della natura, delle foglie e dell’acqua, mescolati all’orchestra d’archi. È una musica che trova la sua sorgente ovunque. La mia idea è proprio che il suono sia dappertutto: bisogna solo saperlo cercare e ingabbiarlo in una forma musicale. Sicuramente l’idea di musica “concreta” è una delle componenti più riconoscibili del mio stile; nei miei organici troverai sempre qualcosa che non torna, che non sai a cosa ricondurre, o che puoi ricondurre a suoni naturali.

F. V. Che ruolo ha la tecnologia in questo tipo di sperimentazione e in questo suo lavoro di ricerca?

M.B. Secondo me è molto importante, proprio per il mio intento di costante ricerca del suono. Un regista come Diritti cerca sempre il suono giusto. Le sue domande sono del tipo: “qual è il suono di una bambina muta che assiste alla guerra?”. Su questa base la tecnologia è fondamentale, perché a volte può non bastare un’idea musicale tradizionale.

F.V. Ne L’uomo che verrà la risposta a quella domanda è stata l’uso delle voci?

M.B. E’ stata quella che io chiamo, per citare Barry Lindon, “fortuna e sfortuna di un giovane compositore”. Non si riusciva a dar voce a questi bambini, non c’era un’idea musicale che Diritti sposasse riguardo alla guerra vissuta dal loro punto di vista. Vi svelo il colpo di fortuna. Una notte, vagando per Bologna, mi fermo alla piadineria Volturno: ci sono due tizi che scherzano e fanno: “Eh! Oh!”. Vedo che fanno questi versi e mi viene l’illuminazione: “questi sono i bambini che giocano alla guerra!”. E quegli urli potevano diventare allo stesso tempo gioco e dramma: infatti accompagnano una scena spaventosa dove sembra che i bambini vengano fucilati, mentre invece in un’altra scena rappresentano un elemento giocoso. Anche questa è un’idea di natura non propriamente musicale: sono grida, fonemi. L’intuizione dei bambini urlanti ci ha permesso finalmente di svoltare, dopo tanti Giga di proposte rifiutate, perché, quando si parla di bambini uccisi in una strage, finire nel melò è sin troppo facile, basterebbero tre note sdolcinate.

F.V. Tuttavia, oltre che su queste soluzioni originali, la musica de L’uomo che verrà si basa anche su un’impostazione più tradizionale, che parte da uno spunto tematico legato a una ninna nanna.

M.B. Sì, la ninna nanna dell’Appennino. Queste sono le “fortune del giovane compositore”: avevo scritto il tema principale del film, in Re minore, e Giorgio se ne era innamorato subito, poi mi ha fatto sentire questa ninna nanna, Fà la nana, anch’essa in Re minore, e i due pezzi, misteriosamente, una volta montati insieme, galleggiavano perfettamente. Ho concepito questa musica modularmente, ad incastri che potessero essere smontati, e infatti la sinfonia finale è giocata proprio su questo.

F.V. Come avviene la scelta della strumentazione? Si basa su associazioni convenzionali?

M.B. No, sono sempre scelte molto mirate e calibrate. Ne L’uomo che verrà per esempio volevo un’orchestra quasi popolare, con sotto la fisarmonica. La viola in questo film è associata alla morte, perché ha un suono molto dolce, ma anche scuro, non squillante come un violino; per questo il tema è fatto con la viola. La scelta dei flauti barocchi stava a rappresentare l’infanzia. C’è un preciso lavoro di drammaturgia nelle scelte strumentali, non sono mai casuali.

F.V. Che ruolo ha avuto invece questo tipo di ricerca preliminare in un film come Il vento fa il suo giro?

M.B. C’è stata una ricerca relativa al mondo occitano, senza la pretesa di voler fare musica occitana. Lo dissi subito: farò una musica da camera con strumenti occitani.

F.V. In questi casi c’è anche il rischio di cadere in stereotipi troppo usurati.

M.B. Sì, assolutamente. Siamo sempre ai confini del didascalico. Perciò in questo film strumenti come ghironda, flauti, clarinetto e oboe sono usati in maniera quasi cameristica.

F.V. Verso la fine del film, quando la famiglia francese abbandona il paesino, si sente molto il contrasto tra questo tipo di strumentazione e le sonorità elettroniche.

M.B. Sì, è stato fortemente voluto. Andai in Val Maira a visitare quel paese in cui vivono in sette persone, con quella strada sullo strapiombo: quel posto mi dava una claustrofobia tremenda. Così creai queste texture elettroniche, che secondo me rappresentano bene quella sensazione. Anche in questo caso si tratta di un azzardo: è un azzardo mettere un’elettronica così spinta in un posto così poetico e alternarla al tema principale, che invece è dolcissimo.

F.V. Questo serviva a trasmettere il senso di straniamento vissuto dai personaggi del film?

M.B. Esatto. Infatti tutti i titoli di quei pezzi riguardano la negatività e l’incomunicabilità; tutto è legato al fallimento dell’integrazione: questo è il mondo poetico del film. Le richieste di Giorgio sono molto varie e difficili da interpretare. Nell’ultimo film (Un giorno devi andare) erano “la voce di Dio”, o “il suono del ventre di una donna che ha perso un bambino”. In questo caso, ad esempio, è stato fatto un lavoro sulle frequenze materne; sono tutti “giochi” che sviluppo e che non so come arrivino sulla pellicola, ma dal punto di vista compositivo sono dei motori di partenza.

F.V. Rispetto ai due film precedenti, in Un giorno devi andare gli strumenti tradizionali che prevalgono sono gli archi. A cosa sono associati?

M.B. All’idea di un suono “profondo”. In Un giorno devi andare si giocava molto sul rapporto tra l’interiorità della protagonista e questa immensa natura. Gli scenari sterminati del Rio delle Amazzoni, mostrati da quelle riprese aree, non reggevano un suono “povero”, e l’orchestra d’archi secondo me era la cosa più adatta a rendere quell’idea, per poi passare invece all’interiorità del personaggio, che era giocata su altri elementi, sempre legati ai suoni della natura.

F.V. Una cosa che contraddistingue le colonne sonore dei film di Diritti è il silenzio: la musica non è onnipresente e questo probabilmente è un fatto positivo, perché altrimenti forse il suo valore potrebbe risultarne svilito. Che ne pensa?

M.B. Su questo tema ci sono dei dibattiti: secondo me la forza del cinema di Giorgio è non abusare mai della musica, ma appoggiarsi alla musica. Lui cerca l’integrazione dentro la scena. Infatti uno dei più bei complimenti per noi è stato quello di un giornalista che ci ha detto che L’uomo che verrà è un film senza musica: il fatto che non si noti vuol dire che è perfettamente integrata. Il silenzio per Giorgio è importantissimo: la sua richiesta è che nasca tutto dal silenzio e si rapporti al silenzio; è sempre un punto di partenza ed ha un valore estetico fondamentale nel suo cinema.

F.V. Anche a livello strettamente musicale è una parte costitutiva dei vostri brani, che sono ricchissimi di pause e interruzioni.

M.B. Sì, proprio perché devono rapportarsi al silenzio, e questa è anche una delle cose più difficili: bisogna lavorare con dei piani dinamici delicatissimi e renderli poi percepibili.

F.V. Entrano in gioco anche le tecniche di registrazione.

M.B. Si, dal punto di vista tecnico non è semplice rendere un “4p” a livello cinematografico, su un sound molto potente e ad alta definizione. Giorgio vuole sempre questa delicatezza; poi c’è il momento in cui lascia libera la musica di esprimersi e di venire fuori, ma è sempre una conquista con lui.

F.V. E’ molto severo su questo?

M.B. Sì, sono delle lotte incredibili. Lui vuole sempre “asciugare”, mentre tu come musicista vorresti un po’ di più, ma credo che alla fine abbia ragione lui. Una scena emblematica è quella della strage in L’uomo che verrà. Io volevo entrare subito con il tema della morte, alla prima “smitragliata” dei tedeschi, e invece Diritti diceva: “aspettiamo, non sveliamo”. Così ci ha fatto creare questo pedale di 14 secondi, quanto era fisiologicamente possibile al coro trattenere il respiro. Questo ha fatto sì che nella scena il tema entri e poi venga “spazzato via” da una granata senza svilupparsi: come compositore questo mi addolora un po’, però la scena è bellissima, perché il tema entra proprio sugli occhi della Rohrwacher che sussulta di fronte ai primi spari. Quindi forse alla fine ha ragione il regista, bisogna dargliene atto.

F.V. Come si costruiscono e si influenzano a vicenda il ritmo della musica e quello delle immagini?

M.B. Vengono costruiti seguendo il ritmo del movimento di macchina e cercando di calcolare e creare “metronomi” all’interno della scena. Secondo me è emblematico il piano sequenza iniziale de L’uomo che verrà. Anche qui c’era un tema ben preciso e Giorgio non voleva mai farlo entrare; abbiamo registrato insieme a lui, suonando sulle immagini. Ci diceva: “aspetta, sta salendo le scale! Parti con qualcos’altro!”. Abbiamo sovrapposto le gocce d’acqua, un piano rhodes e una chitarra acustica, per ottenere un suono non connotato geograficamente o temporalmente, e rendere l’idea di un inizio “galleggiante”, a suggerire la sospensione, quasi a chiedere: chi è questo personaggio che sale le scale ed esplora la casa? Dove siamo? In che anno? Giorgio non voleva svelare niente della storia che si andava a raccontare.

F.V. Queste idee nascono già in sceneggiatura o solo quando iniziate a lavorare sul materiale visivo?

M.B. E’ un percorso che inizia già sulle suggestioni della sceneggiatura e poi subisce modificazioni notevoli. In questo mestiere ci vuole anche un po’ di tattica: se proponi sin da subito le idee giuste al regista lui te le scarterà, quindi all’inizio devi “dargli in pasto” della musica che lui boccerà. La cosa più faticosa per un regista è dire: “sì, mi piace”; lui lo vorrebbe dire soltanto il giorno della chiusura del mix. Quindi bisogna trasmettergli il sound che vuoi fare, però mandando avanti delle “prime linee” che verranno stroncate.

F.V. E’ successo che Diritti bocciasse qualche idea a cui eravate particolarmente affezionati e che abbiate dovuto ripensare a qualcosa di completamente diverso?

M.B. Sì, però molte volte riesco a far rientrare queste idee dalla “porta secondaria”. A volte i pezzi sono prematuri, magari perché il film non ha ancora espresso il massimo a livello di montaggio. Del resto Diritti è un regista che vuole lavorare parallelamente, quindi parliamo di una lavorazione di 10-12 mesi. Ad esempio per la scena del ballo di Un giorno devi andare abbiamo registrato la musica il giorno prima delle riprese in Brasile. In questo parallelismo ci sono continui ripensamenti. A volte il regista ti fa delle “sorprese”: cose che erano state bocciate le ritrovi nel montaggio definitivo.

F.V. Com’è il suo rapporto professionale con Daniele Furlati, co-autore delle musiche per i film di Diritti?

M.B. Il nostro è un rapporto di complementarietà, finalizzato ad ottenere la varietà e la completezza di suggestioni musicali richieste da Giorgio. Siamo due compositori autonomi che lavorano su idee comuni, nate dall’uno o dall’altro. Arriviamo con idee ben precise e poi ci lavoriamo su: io aggiungo delle cose alle sue e lui aggiunge delle cose alle mie.

F.V. C’è qualche cosa che non le abbiamo chiesto e di cui le piacerebbe parlare?

M.B. Ci terrei magari a dire che rappresentiamo un cinema “bolognese” in un ambiente “romano-centrico”. Nel nostro piccolo crediamo in un cinema “sincero” e senza compromessi. Un film parlato in dialetto o in portoghese può incassare di meno al botteghino, però crediamo in questo modo di operare. Nel nostro approccio al lavoro mettiamo veramente il 200%, anche a scapito del budget.

F.V. Cosa consiglierebbe a chi vorrebbe fare il suo mestiere?

M.B. A Rovigo tengo un corso di musica per film, si tratta di una laurea triennale in composizione; per fortuna qualcosa si sta muovendo anche a livello istituzionale. Consiglio da una parte di fare studi accademici, dall’altra di esplorare tutti i linguaggi possibili, senza inibizioni e “ideologie”. Ai miei allievi insegno soprattutto questo: non c’è un linguaggio sbagliato né un linguaggio “principe”, piuttosto ci sono delle idee che, giocate in un certo momento, possono creare il linguaggio giusto. Personalmente ho dovuto rivedere certi parametri; ad esempio Morricone ha sempre avuto la velleità di essere riconosciuto come compositore contemporaneo, ma io non ho questa ambizione: so di essere un compositore con il mio linguaggio e le mie idee, però se dovessi dire dove mi colloco non saprei farlo e neanche lo vorrei. E poi nell’ambiente della musica per film siamo tutti molto diversi, dei “mondi a parte”: si tratta di trovare il regista che si innamora di quel “mondo a parte” e lo vuole per i suoi film, come è successo a me con Giorgio. Inoltre nel cinema di oggi, o almeno nel tipo di cinema proposto da Diritti, che vuole lavorare parallelamente alla sceneggiatura e al materiale visivo, è importante avere uno studio in cui produrre immediatamente quello che serve. Io ho creato il mio studio per essere produttore di me stesso.

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- in the past - I mestieri del cinema – Conversazione con Hugues Sheeren – Intervista “DIVERSAMBIENTE”.

En cas de malheur

Lavorare nel cinema non significa soltanto recitare su un set o stare dietro una macchina da presa; si tratta di un mondo ben più ampio, che assimila e racchiude milioni di sfaccettature e le trasforma nelle tante professioni del cinema. E, allo stesso modo, non esistono soltanto registi, attori, cinematografie universalmente conosciuti; spesso accade invece che proprio qui, in ciò che intenzionalmente o involontariamente trascuriamo, si nascondono i piccoli capolavori.
L’obiettivo principale di FuoriVista è dunque quello di essere un luogo in cui coloro che di solito non hanno voce in capitolo, possano raccontare la loro esperienza, fatta di risultati ma spesso anche di grosse difficoltà. Sono quelle che amiamo definire le concretezze del fare cinema: tutte quelle azioni, quelle mansioni che, date di frequente per scontato, difficilmente vengono prese in considerazione da parte dello spettatore, proprio perché manca una reale e profonda conoscenza del loro funzionamento. Per questo motivo, Fuori Vista vuole essere uno strumento di effettiva utilità, da ogni punto di vista: di chi produce, di chi riceve e di chi sta in mezzo e fa da tramite tra il momento creativo e quello fruitivo.

 

Conversazione con Hugues Sheeren, docente di francese (“lettore di scambio”) presso l’Università di Bologna

 

di Donatella Stinga e Maria Paola Meloni.

Il Dott. Sheeren è presidente dell’Associazione culturale italo-belga “Bologna-Bruxelles A/R” e promotore della cultura belga attraverso le attività organizzate dal “Centre d’études sur la littérature belge de langue française” (ceSLeBeLF). Lo abbiamo incontrato nel corso della rassegna “SIMENON CINÉMA – L’adattamento dei gialli del romanziere belga al grande schermo – Mostra di manifesti e fotografie” che si è tenuta a Bologna nel gennaio 2009.

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“Quando abitavo a una dozzina di km da La Rochelle, presi l’abitudine di andare ogni sabato in uno dei cinema popolari che proiettavano due film a serata, senza contare i lunghi intermezzi durante i quali gli spettatori si assiepavano nel bistrot appartenente allo stesso proprietario (che rendeva economicamente più dei film). Non parlerò di quei film. Come qualità corrispondevano più o meno ai romanzi popolari che scrivevo, sforzandomi di rimanere in tono e di far ridere o piangere al momento giusto. Quello che mi attirava era la folla che reagiva ammirevolmente a tutte le piccole astuzie degli autori. Amavo anche lo stare gomito a gomito con gente con cui mi sentivo solidale e come gli altri andavo a bere il mio boccale di birra durante l’intervallo”. (Da W+B, Octobre 2002,Georges Simenon le théâtre et la chanson di Marc Danval, p. 48)

PREMESSA

Simenon è tuttora lo scrittore al mondo più adattato al cinema. Dai suoi romanzi sono stati tratti 58 adattamenti per il grande schermo e una novantina di serie per le televisioni di tutto il mondo, con nel ruolo di protagonista il commissario Maigret, suo celeberrimo personaggio.
A 20 anni dalla morte di Simenon, e a 35 anni dalla morte di Gino Cervi, grande interprete televisivo di Maigret in Italia, a Bologna, città natale di Cervi, ha avuto luogo la rassegna “Simenon Cinéma”, organizzata dall’Associazione culturale italo-belga “Bologna-Bruxelles A/R” e dal “Centre d’études sur la littérature belge de langue française” del Dipartimento di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bologna, insieme al Quartiere Santo Stefano, alla Cineteca di Bologna e con la collaborazione di Wallonie-Bruxelles International (Comunità francofona del Belgio), Fondazione Federico Fellini, il Centre d’Etudes Georges Simenon dell’Università di Liegi, e il sostegno di Erasmus Mundus Program (CLE) e dell’ufficio Belga per il turismo Vallonia-Bruxelles. La rassegna ha incluso conferenze, esposizioni e proiezioni cinematografiche.
FUORIVISTA ha incontrato il dott. Hugues Sheeren, il quale ci ha cortesemente illustrato l’esposizione allestita al Baraccano nel contesto della rassegna.
La mostra ha ospitato parte della cartellonistica cinematografica dei film di Simenon, proveniente dalla collezione del belga Michel Schepens, ma anche parte della sua corrispondenza epistolare e reperti legati alla sua pratica della scrittura, provenienti dal fondo Georges Simenon dell’Università di Liegi, assieme a una collezione di foto di scene tratte dai film, esposta al Cinema Lumière che ha ospitato una rassegna cinematografica dedicata all’autore.

D. Come è nata la decisione di organizzare questa rassegna?

Sono trascorsi venti anni dalla morte di Simenon e questo anniversario coincide con il trentacinquesimo anno dalla morte di Gino Cervi, grande interprete televisivo di Maigret in Italia. Non a caso è stato scelto di organizzare questa manifestazione, a Bologna, città natale di Cervi.
Liegi, dove nacque Simenon, e Bologna, sono in qualche modo predisposte al poliziesco per via della configurazione stessa delle città. Bologna ha sempre avuto quest’aura, e molti autori di romanzi polizieschi vi hanno ambientato le loro storie (come Bernardi, Lucarelli, Machiavelli n.d.r).
Sheeren inizia con l’illustrarci la parte della mostra proveniente dal Fondo Simenon, relativa alla sua pratica della scrittura .
Ecco le famose buste gialle. Simenon aveva questo rituale nella scrittura: la macchina da scrivere, le buste gialle, le matite ben temperate, era un po’ superstizioso…
Abbozzò il suo primo romanzo su una busta gialla, utilizzata come canovaccio, e da quel momento l’ha sempre fatto. Sulla busta scriveva il titolo e poi la carta d’identità dei personaggi: età, caratteristiche, stato civile, città e altre informazioni. A volte era molto più dettagliato e tracciava anche la pianta di una città. Si ispirava sempre ai fatti reali della sua vita, non riusciva a inventare, doveva rifarsi a qualcosa che aveva conosciuto.
Simenon ha scritto tantissimo, si parla di 450 romanzi circa. All’inizio della sua carriera scrisse romanzi a sfondo erotico: la definiva letteratura alimentare, perché scriveva per vivere. Era consapevole che si trattava di una letteratura di poco valore, ma piuttosto congeniale a un pubblico di casalinghe, un po’ alla Barbara Cartland.
Nonostante fosse uno scrittore così prolifico, è strano considerare come anche nelle sue memorie abbia raccontato di quanto fosse difficile per lui scrivere, di come a un tratto, nei giorni che precedevano la scrittura, sentisse un sorta di disagio, malessere, quasi di nausea.
Si chiudeva allora in una stanza. Si diceva che nessuno l’avesse mai visto scrivere, fatto confermato dal figlio, John.

D. Nei romanzi spesso Maigret cammina molto, lo si potrebbe definire un flâneur… gli piace perdersi nella città che diventa una vera e propria protagonista del romanzo… come Parigi…

Sì, Parigi e non solo. Maigret, che a mio avviso forse non è molto intelligente, ha però fiuto, una grande intuizione. Per cui ha bisogno di ambientarsi nei vicoli, nei bar, per capire gli odori, i suoni, e comprendere, identificarsi anche con il criminale e con la vittima. Per questo in effetti ha bisogno di andare un po’ a zonzo…

D. Oggi lo si potrebbe definire quasi un profiler?

Si, vero… Proseguendo nel nostro percorso, qui abbiamo un albero genealogico. È alla base di Pedigree, il grande romanzo autobiografico di Simenon, anche se in realtà i nomi sono stati cambiati perché lo scrittore voleva evitare conseguenze legali.
Nel 1940 un medico gli annunciò che gli rimanevano solo due anni da vivere. La diagnosi era completamente falsa, però sul momento per lui fu ovviamente uno shock; aveva appena avuto il primo figlio, Marc, e si era detto: «Ma se muoio, mio figlio non saprà niente di me». Allora tracciò il suo albero genealogico, dopodiché iniziò a scrivere questo romanzo, che all’inizio si chiamava Je me souviens.
Dopo capì che non sarebbe morto, ma portò comunque avanti il romanzo.
La critica lo attendeva al varco, avendo Simenon fino a quel momento prodotto tutta quella letteratura o popolare o poliziesca con Maigret. Poi infatti abbiamo i romanzi duri, come li chiamava lui, dei polizieschi senza Maigret, il quale d’altronde è presente solo in circa un terzo dei suoi romanzi.
La critica si aspettava un romanzo vero, alla Balzac… Gide spinse Simenon a pubblicare Pedigree e l’albero genealogico fu alla base di questo romanzo, lo fece per ricordarsi…

D. A proposito di Balzac, spesso è stato fatto un accostamento tra Simenon e Balzac, sia per la prolificità della loro scrittura, sia per il forte desiderio di fama e riconoscimento da parte del pubblico. Anche l’intento di penetrare nell’intimo dei personaggi, di riuscire a rendere l’umanità di un personaggio marginale li accomuna…

Si è vero, sono stati paragonati anche perché Balzac, come Simenon, diceva «Je veux tout voir, tout comprendre». C’era in lui la volontà di non tralasciare niente di ciò che c’era nell’universo, e anche in Simenon c’è questa componente. Quasi una forma di bulimia, come può qualcuno scrivere così tanto? È pazzesco!
Simenon diceva sempre di avere avuto 10.000 donne, fu una sorta di don Giovanni; e anche in altri campi dimostra questa volontà di impadronirsi di tutto. Anche Balzac provava questi sentimenti, questo desiderio di rappresentare tutto, di non perdere niente.
Simenon lo dimostra anche con i suoi viaggi in giro per il mondo, non voleva lasciar perdere niente…

D. Ha viaggiato molto attraverso fiumi, mari…

Sì, raccontava sempre che fu sulla sua imbarcazione che nel 1929 inventò Maigret, a Delfzijl, un piccolo porto nei Paesi Bassi… che poi in fondo è un mito anche questo, il mito della nascita del suo personaggio. In realtà molti critici sostengono che ciò non sia vero, che Maigret sia stato creato un po’ di tempo prima, che alcuni dei suoi tratti fossero già in altri suoi personaggi.

D. Un giramondo che poi per scrivere si rinchiudeva in una stanza.

Simenon era pieno di contraddizioni, tendeva a esagerare le cose. Non so se conoscete l’aneddoto, Le bal anthropométrique, il famoso ballo in maschera, una propaganda per lanciare Maigret. Per questo ballo gli inviti erano delle finte schede giudiziarie e gli ospiti, arrivando, dovevano lasciare le impronte digitali, c’erano finti cadaveri e poliziotti, tutto questo per suscitare scandalo, rumore, scalpore.
Poi negli anni Venti ci fu il famoso episodio della gabbia di vetro. Un editore pensò di rinchiuderlo in una gabbia di vetro, in una piazza, dove avrebbe dovuto scrivere un romanzo sotto gli occhi di tutti, cosa che non ha mai fatto. Simenon fu accusato di essere uno scrittore “à la minute” All’ultimo momento la cosa non si fece a causa di tutta la polemica che si era creata, comunque molta gente disse di averlo visto scrivere nella gabbia, e si sono poi create leggende attorno a tutto ciò. Quest’episodio, però, gli nuocque per il resto della sua carriera.
Proseguendo, volevo mostrarvi i calendari, un’altra delle sue “superstizioni”: Simenon prendeva sempre gli stessi calendari e faceva delle crocette blu sui giorni in cui scriveva e delle crocette rosse sui giorni corrispondenti alla correzione, alla revisione, ma a volte gli capitava di invertire i colori. Questo denota il suo lato metodico: era estremamente puntiglioso, ma allo stesso tempo un po’ pazzo.

D. Il titolo della rassegna in francese gioca sull’assonanza Simenon/Cinéma.

In realtà, nonostante la grandissima mole di adattamenti cinematografici tratti dai suoi libri, non è così vero che Simenon abbia avuto un fortissimo rapporto con il cinema. Non ci andava, perché soffriva di claustrofobia, né ha mai scritto sceneggiature. In verità ci provò, ma deluso dai primi adattamenti, non fece mai film.

D. Eppure il primo Maigret cinematografico è il film di Renoir, del ‘32. Come pensa che lui abbia vissuto l’esperienza di questo primo film proprio con Renoir?

Pensavo infatti a questo caso. Ci sono stati tre film tratti da Simenon negli anni Trenta: La nuit du carrefour di Jean Renoir (La notte dell’incrocio, 1932) con il fratello Pierre Renoir, Le chien jaune di Jean Tarride e Il delitto della villa di Julien Duvivier (1932), dal romanzo La tête d’un homme.
Simenon rimase deluso, non tanto dai film in sé, perché quello di Jean Renoir è molto bello, ma il regista ebbe strane vicissitudini: aveva perso la moglie e si ubriacava spesso, così si dimenticò di girare alcune parti, si sono perse delle bobine con una parte del film e anche della sceneggiatura. Quindi un film incomprensibile, che però risulta molto bello, poiché Renoir era riuscito a cogliere l’atmosfera.
Simenon parlava di clima, non di atmosfera. Preferiva clima, forse per il clima belga, non so…
Comunque rimase deluso dall’esperienza cinematografica. Così negli anni Trenta decise di voler girare personalmente dei film, bloccando tutti i diritti di adattamento cinematografico delle sue opere per sei anni, perché riteneva che i produttori non avevano fatto abbastanza pubblicità. Disse che nessuno avrebbe ancora potuto creare film tratti dai suoi romanzi, ma è una delle tante bugie che ha raccontato, perché in realtà nel 1939 cambiò idea ed ecco che i suoi romanzi saranno adattati di nuovo sul grande schermo.
Sheeren prosegue mostrandoci i manifesti cinematografici dei film tratti da Simenon, provenienti dalla collezione Schepens. I manifesti belgi hanno la doppia didascalia in francese e olandese. Lo stesso film ha titolo e locandine diverse a seconda del paese.
Per i manifesti, noi abbiamo parte della collezione Schepens: questi provengono dalla Comunità francofona del Belgio (Wallonie-Bruxelles International), gli originali li ha il collezionista.
Quando sono scomparsi i cinema di quartiere, con la nascita della televisione, alcune persone hanno pensato di cominciare a collezionare i manifesti, perché si rendevano conto del loro valore artistico. Questi artisti erano in genere anonimi. Alcuni facevano delle collezioni in base a un tema, ad esempio il tema del treno nel cinema oppure uno strumento musicale o un attore in particolare, e raccoglievano le locandine in base a questi elementi.
Il nostro collezionista ha scelto di raccogliere i manifesti relativi ai film di Simenon che gli ricordavano l’infanzia, quando li vedeva per strada. In Belgio, una volta, le locandine non venivano affisse solo al cinema come oggi, ma anche per strada, nei bar, nei negozi, e anche nelle case dei privati, alle finestre.
Chi accettava di esporre le locandine riceveva dei biglietti in omaggio.
In Belgio le locandine erano più piccole di queste esposte, mentre in Francia e in Italia avevano più o meno la stessa dimensione. In Belgio erano più piccole (ripetizione), soprattutto durante la guerra, perché in mancanza di carta, spesso venivano utilizzate cartine militari, tagliate in quattro parti e stampate sul retro.
Si può anche notare che molti di questi film vennero prodotti dalla casa di produzione Continental, francese ma controllata dai tedeschi, fatto che causò non pochi problemi a Simenon negli anni Quaranta, perché durante l’occupazione tedesca sono usciti nove film di Simenon, non solo con protagonista Maigret, prodotti dalla Continental. Questo fu motivo di critica, in quanto, nel corso del conflitto, lo scrittore condusse una vita da borghese, in campagna. Ha avuto un atteggiamento un po’ opportunista, ambiguo…
Tuttavia è anche vero che in quel periodo il suo dottore gli aveva annunciato che gli restava poco da vivere. Questo può essere stato il motivo per cui scelse di mettersi un po’ da parte. Nel 1945 ci furono delle indagini su di lui, ma non si è mai scoperto niente e questi film non veicolavano alcun messaggio di propaganda, per cui non c’è nessuna prova che Simenon abbia anche solo vagamente collaborato con i tedeschi, però questo è il motivo per cui alla fine andò via e si trasferì negli Stati Uniti.
A mio avviso in quei film ci fu un errore nella scelta di far interpretare Maigret ad Albert Préjean, perché era un attore in voga in quel periodo. Era sul tipo del seduttore, troppo giovane per interpretare Maigret.
A proposito degli interpreti di Maigret, questa è una marionetta molto carina che ha fatto un artista bolognese su Gino Cervi che incarna Maigret.

D. Maigret ha avuto molti, diversi interpreti. Che pensa dell’interpretazione di Maigret data da Gino Cervi? Conosce la versione televisiva? E del Maigret di Michel Simon?

Sì, conosco Maigret a Pigalle di Mario Landi (1966), tratto da Maigret au Picratt’s, una coproduzione franco-italiana, l’unico film italiano su Maigret al cinema e l’ultima versione cinematografica del personaggio.
La serie televisiva italiana iniziò nel 1964. Tra l’altro, dalla corrispondenza con Fellini, si evince che Simenon apprezzasse molto l’interpretazione che Gino Cervi diede di Maigret.

D’altronde – non solo in Italia – ciò che ha reso veramente popolare il personaggio di Maigret è stata la televisione, più che il cinema. Dal 1967 in poi le trasposizioni cinematografiche di Simenon riguardano gli altri suoi romanzi, non più i Maigret.
Simenon amava poi molto l’interpretazione di Michel Simon, che purtroppo ha fatto solo un film, Brelan d’as di Henri Verneuil (1952).
Tra gli attori che hanno interpretato Maigret, ricordo anche Pierre Renoir, primo Maigret sullo schermo, il quale ne diede una bella prova.

D. Dopo la guerra arrivano i primi adattamenti stranieri da Simenon. Film americani, tedeschi, austriaci.

A volte ci sono anche due film diversi ispirati allo stesso romanzo, che non hanno neanche lo stesso titolo. Ci sono 53 film tratti da una quarantina di romanzi, perché a volte abbiamo due o tre adattamenti dallo stesso romanzo iniziale. Penso a Les fiançailles de M. Hire, arrivato in Italia con il titolo L’insolito caso di Monsieur Hire, del 1990, già realizzato negli anni Cinquanta con il titolo Panique, con Brigitte Bardot.

D. Maigret, un detective francese, ma dallo spirito belga!

Credo che in un’atmosfera surrealista, tipicamente belga, vi sia un parallelo tra il pittore Magritte, anche lui belga, e la pipa che caratterizza Maigret… Maigret è francese, ma in fondo è un po’ belga, perché è un uomo che tace.
Il silenzio pervade la cultura belga, ha qualcosa a che fare con un complesso linguistico nei confronti dei francesi che hanno sempre considerato altezzosamente i belgi per via del loro accento.
Il tema del silenzio si trova poi nel cinema belga, nella letteratura simbolista, nei fumetti, nella scrittura.
Maigret è un personaggio molto taciturno e Jean Gabin è stato talvolta criticato perché parlava troppo nei film. Maigret rappresenta anche il francese medio, quindi un personaggio anonimo, senza grande carisma, non bello, non simpatico, in fondo senza una chiara personalità.
Però ha la sua pipa, l’impermeabile, la bombetta che lo caratterizzano, e proprio in quegli anni, Magritte dipinge le sue pipe, per cui si può dire che la pipa di Maigret è magrittiana e maigrettiana al tempo stesso.

D. Anche Poirot, l’investigatore creato da Agata Christie, è belga…

Si, e né lui né Maigret sono dei James Bond! Prevale in loro il lato riflessivo, sono dei personaggi tutto sommato “modesti”, anche se poi sanno di valere… Non sono eroici come dei James Bond, insomma, né come degli Sherlock Holmes.

D. Neanche degli Auguste Dupin, il detective di Poe.

Già. Penso che la modestia sia un tratto tipicamente belga. Il Belgio è un piccolo paese, che non ha la grandeur francese…
La paura di commettere degli errori nella lingua ha spinto i Belgi a orientarsi verso la grammatica, nella quale primeggiano, a un punto tale che i Francesi si riferiscono a delle grammatiche scritte da Belgi.
Il cinema belga ha faticato ad affermarsi rispetto a quello francese, che lo ha sempre un po’ schiacciato, anche se ultimamente ha iniziato a farsi conoscere. In ambito letterario, il Belgio si è espresso per questo motivo soprattutto nella para-letteratura, nel poliziesco, nel fantastico e nei fumetti, generi per così dire “paralleli”. La Francia non riconosceva questi generi. È per questo che Simenon era considerato uno scrittore di “basso livello”, perché la sua non era reputata “letteratura”. La para-letteratura è stata a lungo oggetto di pregiudizio e tutt’oggi Simenon fa fatica a entrare nei programmi universitari in Francia, poiché vi è ancora un certo pregiudizio.

D. In Francia l’interprete principale di Maigret è stato Jean Gabin.

Nel ’56 Gabin interpretò per la prima volta il ruolo di Maigret. Gabin era già apparso in alcuni film tratti dai Maigret, ma non nel ruolo del commissario. Alcuni critici letterari affermano che nel ’58 si riuniscono i due miti, perché Gabin era già un mito negli anni Trenta in Francia e Maigret è un mito dagli anni Trenta in poi.
Gabin non avrebbe potuto rappresentare Maigret in quell’epoca perché era troppo giovane; alla fine degli anni Cinquanta i due miti si incontrano, anche perché Gabin ha raggiunto un’età più consona a quella di Maigret, che, quando nasce all’inizio degli anni Trenta ha 45 anni, e quando Simenon lo abbandona ne ha 53.
Lo scrittore aveva quaranta anni in più, e il suo personaggio era invecchiato di setto-otto anni al massimo.

Gabin recitò in tre film, tra cui un non Maigret, En cas de Malheur (La ragazza del peccato, 1957 di Autant-Lara) con Brigitte Bardot.

Trois Chambres a Mahnattan

Questo invece è il manifesto di Trois Chambres à Manhattan (Marcel Carnè, 1965), dal romanzo che traduce la sua esperienza americana. Il figlio ha affermato che Simenon aveva qualcosa tipico dell’autore americano, ma io non sono d’accordo. Francofono, nato in Belgio, morto in Svizzera, vissuto in Francia e sposato con una donna del Quebec. Si potrebbe pensare addirittura che incarni la francofonia. Al contrario si dovrebbe affermare che Simenon è uno scrittore universale, del mondo, che non si può facilmente collocare in una nazione precisa.
Comunque chi conosce il Belgio, e in particolare Liegi, ritrova pienamente la sua atmosfera nelle descrizioni che Simenon fa di Parigi, dei suoi bar, dei suoi angoli.

D. Simenon fu anche grande amico di Fellini.

La storia con Fellini è molto bella. Inizia a Cannes nel ’60, quando Fellini era in concorso con La Dolce Vita e Simenon era presidente della giuria. Simenon difese Fellini, voleva che vincesse la Palma d’oro.
Nessuno voleva premiare Fellini: c’erano delle pressioni diplomatiche, delle persone nella giuria, che in teoria non dovevano trovarsi lì, cercarono di influenzare il verdetto. Simenon difese strenuamente Fellini, assegnandogli il premio nonostante i fischi del pubblico. Da lì nacque la loro amicizia.

Si sono scritti per oltre 20 anni. La loro corrispondenza è stata pubblicata in Italia da Adelphi.In realtà si conoscevano già da un po’, o meglio, si ammiravano. Fellini ha sempre apprezzato le atmosfere e il clima in Simenon, e anche Simenon apprezzava i suoi film, nonostante andasse poco al cinema.

simenoncinema

Qui abbiamo la fortuna di vedere due caricature fatte da Fellini, una proprio di Simenon – dal Libro dei sogni – e una del commissario Maigret, provenienti appunto dalla fondazione Fellini. (Entrambe le immagini sono sul depliant dell’evento, reperibile al sito: www2.lingue.unibo.it/centrobelga/_Pieghevole-1.pdf)
Simenon e Fellini si scrivevano in tre lingue, italiano, francese e inglese. Ognuno aveva una conoscenza passiva della lingua dell’altro. Insomma, erano degli uomini di livello internazionale e si sono scritti tanto.
In qualche modo si consideravano dei fratelli, ma la loro fu un’amicizia molto epistolare, non si vedevano quasi mai. Però nelle lettere traspare dell’affetto, una condivisione delle proprie esperienze, anche nei momenti di incertezza.

D. Pare che Simenon abbia incoraggiato Fellini a realizzare Il Casanova.

Sì, qui abbiamo una lettera molto interessante, dove Fellini racconta di aver sognato Nettuno. Leggendola abbiamo riso perché il Nettuno è il simbolo di Bologna ma di fatto il suo realizzatore si chiamava Jean de Boulogne, ed era fiammingo; la copia del Nettuno si trova a Bruxelles.
Fellini raccontò che il sogno lo aveva influenzato nella decisione di realizzare Il Casanova.
Qui c’è una foto di Liegi, la Liegi dell’epoca, dove c’è proprio il “Percorso Simenon” da fare a Natale, una moda molto bella che è nata negli ultimi 15 anni
Nel quartiere di Outremeuse, c’è la sua statua, oltre a molte sculture di personaggi che hanno fatto la storia. Liegi è la città natale anche di Carlo Magno.
I passanti si abituano e imparano a conoscere questi personaggi che spesso abbiamo dimenticato.

Ma Simenon, non è stato dimenticato. Infatti a Liegi, nel quartiere Outremeuse si vive ancora con il suo ricordo. Questo è il Pont des Arches, che fa da sfondo al suo primo romanzo, la casa dove ha vissuto e anche certe insegne dei negozi, sono come allora.

D. Un altro grande artista belga è Jacques Brel. Brel e Simenon, in modi diversi, hanno stigmatizzato una certa ipocrisia borghese, una certa religiosità di facciata nella società belga. Simenon scrisse che quando ascoltava Le plat pays non poteva fare a meno di piangere. Pensa si fossero conosciuti?

Non penso… Sono due persone che hanno lasciato il Belgio per fare carriera a Parigi e solo questo hanno in comune. Poi Simenon ha vissuto negli Stati Uniti, e in seguito in Francia, ma non più a Parigi.
Avevano 26 anni di differenza… Anche se poi Brel è morto prima di Simenon.
Credo che l’uno conoscesse il lavoro dell’altro, ma che non ci fossero stati tra loro dei contatti diretti.

Maria Paola Meloni – Donatella Stinga

INTERVISTA: “DIVERSAMBIENTE”.  Al cinema biodiversamente

di Donatella Stinga.

 

Centro Documentazione Handicap di Bologna

e Parco dell’Abbazia di Monteveglio.

«The great art of films does not consist of descriptive movement of face and body but in the movements of thought and soul transmitted in a kind of intense isolation».

«La grandezza del cinema non consiste nel descrivere i movimenti del volto e del corpo, ma i moti del pensiero e dell’anima trasmessi in una sorta di intenso isolamento».

Louise Brooks (1906 – 1985), attrice.

Una prima riflessione:

La straordinarietà del cinema è il voler raccontare storie, vere o inventate, e a chi interessa se i protagonisti sono “normali”, disabili o magari pinguini…

L’importante è che la storia catturi le nostra capacità percettive.

Il cinema ha trattato in vari modi le tematiche della disabilità, dal 1923 con il Gobbo di Notre Dame di Wallace Worsley a Il mio piede sinistro di Jim Sheridan nell’89, con il bravissimo Daniel Day-Lewis; da

Forrest Gump (1994) di Robert Zemeckis (chi non ricorda la frase: “Stupido è chi lo stupido fa!”) a L’ottavo giorno (1996) di Jacob Van Dormael.

La rappresentazione della disabilità attraversa l’immaginario cinematografico.

Grazie anche al cinema, e alla potenza delle sue immagini, si è potuto mostrare, rappresentare la persona disabile nella ricchezza e nella concretezza del suo stesso corpo, talvolta vissuto come tabù.

Attraverso il cinema si ha la possibilità creativa di relazionarsi con mondi diversi e quindi modificare i propri punti di vista, entrando in empatia con il paesaggio interiore di personaggi all’apparenza irriducibilmente altri.

Negli anni Trenta un regista, Tod Browning, osò portare sullo schermo i freaks (concepiti precedentemente come fenomeni da baraccone), svelandoceli nella loro umanità.

Nel film di Browning è chiaro che ci sono essere umani “mostruosi” che possono avere sembianze gradevoli, mentre chi ha avuto il destino di essere diverso nell’aspetto e nelle capacità fisiche, può avere una comprensione più vasta della condizione umana.

Il cinema in questo ci ha aiutato ad aprirci e a guardare con occhi nuovi l’apparente bellezza o bruttezza delle cose, e ad affrontare il disagio dell’insolito, per riconoscerci in quei personaggi marginali che portano spesso il peso dell’esclusione sociale.

L’INTERVISTA

Inoltre, la redazione di Fuorivista ha deciso di incontrare alcuni animatori del Centro Documentazione Handicap di Bologna per ragionare con loro delle problematiche connesse ad un loro interessante progetto.

Cornice dell’incontro è il Parco dell’Abbazia di Monteveglio con il quale il CDH sta creando “Diversambiente” del quale ci appunto ci parleranno.

Facciamo quindi la conoscenza di Roberto, educatore del Progetto Calamaio – Cooperativa Accaparlante – Stefania e Matias, due animatori, e Daniela De Matteis, coordinatrice delle visite guidate e del turismo scolastico all’interno del Parco dell’Abbazia.

FV (Donatella Stinga) – Come è nato il progetto “Diversambiente”?

Daniela De Matteis – L’idea è nata da Paolo Degli Esposti che lavora al Centro Documentazione Handicap di Bologna e vive a Monteveglio. Conoscendo perfettamente la realtà del parco, ha pensato di costituire una rete tra varie realtà locali, ognuna con le proprie esperienze. Ha coinvolto così il CDH, la cooperativa “La Valle del Lavoro”, il Centro di Documentazione per l’Integrazione di Crespellano, che funge da collegamento tra persone e realtà coinvolte sui temi dell’integrazione; e infine l’Associazione Volhand la quale riunisce famiglie con figli disabili.

L’idea era quindi quella di creare un contesto sia materiale, nello specifico un Giardino del Benessere, sia formale, ossia un luogo in cui valorizzare le diverse competenze e abilità, un “luogo del fare” come mi piace chiamarlo. Abbiamo pensato al giardino come a uno spazio nel quale, con determinate accortezze, poter accogliere persone anche disabili al fine di svolgere attività in campo naturalistico. All’interno del parco, infatti, sono presenti piante, animali e situazioni geologiche interessanti che però, per la natura stessa del parco, sono difficili da visitare per chi ha difficoltà motorie.

FV – A questo proposito, Monteveglio è un piccolo scrigno di biodiversità, grazie alla varietà di ambienti che caratterizza il parco.

Daniela – Senza dubbio. Il parco rappresenta un mosaico ambientale molto ricco, che testimonia lo storico intreccio tra dinamiche naturali e interventi umani. In circa mille ettari si assiste a una grande diversità ambientale, quindi di specie. In particolare, tra le zone più rinomate del parco spiccano alcuni bacini calanchivi nei quali affiorano le rocce più antiche dell’Appennino bolognese. Queste zone sono tipiche dei nostri territori. Ma il fiore all’occhiello di Monteveglio è l’abbazia, circondata dall’abitato medievale sorto intorno all’antichissima pieve di Santa Maria. La particolarità che però voglio sottolineare è che già dagli anni Ottanta le scuole svolgevano progetti di educazione ambientale, uscendo sul campo, studiando la natura dal vivo e non sui libri, sebbene il parco non esistesse formalmente come istituzione. Quando perciò nel 1995 venne istituito, già da molto tempo era noto alle comunità e amministrazioni locali per la sua forte vocazione didattica.

FV – Roberto, tu sei educatore del Progetto Calamaio. Come è nata l’unione tra il gruppo di Accaparlante e il Parco di Mointeveglio?

Roberto – Il progetto “Diversambiente” nasce a seguito dell’ampliamento della rete di cui ragionavamo prima con Daniela. Fin dall’inizio per noi è stata una sfida tentare di mettere in contatto la nostra esperienza con quella del parco, per cui cercare un aggancio tra la diversità delle persone con quella della natura.

FV – Ma partivate favoriti per via del Progetto Calamaio.

Roberto – Si può dire che abbiamo fatto degli esperimenti, iniziando a entrare nelle classi e seguendo i percorsi già avviati dal parco per vedere la reazione dei bambini e scoprire i possibili punti di contatto. Abbiamo impiegato il parco e un percorso preesistente per ideare un’animazione volta a far comprendere la diversità ai bambini. Ciò soprattutto in vista della realizzazione del Giardino del Benessere. Abbiamo perciò intrapreso un cammino di ricerca con educatori, animatori, responsabili del parco e bambini. Il nostro intento era che le idee per la realizzazione del Giardino nascessero dai bambini per far sì che questo luogo non fosse il giardino dei disabili, ma di tutti. La nostra idea era di concepire un percorso adatto sia a una persona in carrozzina sia alla mamma che viene col bambino in passeggino, sia a una persona che non riesce a deambulare bene sia a un anziano…

Daniela – Per esempio dal sentiero che verrà costruito si vedono i calanchi di per sé difficilmente accessibili a tutti per via del fango e del forte dinamismo che li caratterizza. Allora i bambini hanno avuto l’idea di portare dell’argilla, di cui sono fatti i calanchi, vicino al sentiero, in modo tale che la pioggia creasse dei piccoli calanchi. I bambini hanno perciò ragionato su come dare la possibilità a una persona disabile di toccare con mano i calanchi.

Roberto – La prima parte del progetto è stata di ricerca, di confronto e anche di grande divertimento perché la nostra modalità operativa è proprio questa: lavorare su tematiche profonde, ma sempre attraverso le storie e il contatto giocoso con i bambini.

FV – Quali sono i metodi didattici impiegati nel Progetto Calamaio?

Stefania – Nel Progetto Calamaio utilizziamo in particolare la fantasia: c’è chi ha la fantasia di inventare delle fiabe, c’è chi, come me, ha la fantasia per disegnarle. Però le nostre fiabe hanno qualcosa di diverso. Inoltre creiamo i costumi adatti per portarle in scena nelle classi.

Roberto – Nel Progetto Calamaio ognuno mette in gioco le proprie abilità. Quando per esempio è arrivata Nadia ha introdotto il problema della ipovisione. Questo è stato uno stimolo a creare dei costumi tattili per non limitare il tutto a una dimensione visiva. È proprio così che il progetto si rinnova di volta in volta.

FV – Collaborate con classi che vanno dalle elementari alle superiori, come reagiscono gli alunni?

Roberto – Il punto forte del Progetto Calamaio è proprio quello di incontrare i ragazzi non raccontando l’esperienza ma facendogliela fare: non spieghi che cos’è la disabilità, chi è una persona disabile, qual è la sua storia. Al contrario, incontri la persona, la disabilità, la carrozzina, le difficoltà, incontri una storia vera. Da una parte, questo comporta un primo momento di imbarazzo da parte dei bambini, ma è proprio da lì che partiamo, da questa difficoltà, e su di essa procediamo perché altrimenti si rischia di lavorare in maniera astratta. Ovviamente, non vogliamo mettere di proposito le persone in difficoltà, ma visto che i limiti e le fatiche esistono è da lì che partiamo, per dimostrare che non è una cosa brutta. A questo punto il bambino conosce la persona e va oltre la disabilità che diventa parte dell’identità della persona.

FV – Forse c’è più imbarazzo da parte degli adulti che non dei bambini?

Roberto – Effettivamente sì!, incontriamo maggiore imbarazzo negli adulti e nei ragazzi più grandi. I bambini, invece, non provano imbarazzo, forse più timore o difficoltà a guardare il disabile, ma dall’altra parte una grande spontaneità. È questo alla base del Progetto Calamaio: incontrare una persona e superare la disabilità per ridurla a una parte.

FV – In questo modo si sottolineano le abilità, non la disabilità.

Roberto – Certo, a noi piace lavorare sulla relazione, sul contatto, sul confronto. Hai un animatore disabile con la propria storia, la presenza fisica e il limite della carrozzina che diventa spesso un gioco.

Stefania – La carrozzina non è più un pezzo di ferro freddo come poteva essere visto una volta…

Matias – Volevo aggiungere che viviamo in una società che tende a omologare. Invece lavorare sulla diversità, con i bambini soprattutto, porta a valorizzare la diversità così da diventare una ricchezza.

Roberto – L’altro strumento che impieghiamo è il gioco di ruolo attraverso cui si sperimenta un limite, non vedere, non muoversi, non parlare, per esempio. Solo così vivi cosa sente l’altro.

Daniela – In termini di metodologia, nei programmi di educazione ambientale, si utilizzano le stesse modalità. La finalità è quella di percepire in natura cose che normalmente non percepiamo.

Per esempio la vista è il senso che più utilizziamo, ma spesso oscura gli altri sensi. Anche a noi capita di bendarci per cercare di cogliere meglio i suoni dell’ambiente.

FV – Si è creata perciò una sinergia tra voi del parco e i ragazzi del Calamaio.

Daniela – Sì, infatti c’è molta affinità per quanto riguarda la comunicazione e le modalità di approccio con i bambini. Non ho mai notato una differenza, anche se veniamo da esperienze completamente diverse. Gli stessi insegnanti non badavano se in classe intervenivo io o Roberto, Matias o Stefania.

FV – Ritenete che ci siano ancora dei pregiudizi riguardo la disabilità?

Stefania – Sicuramente credo ce ne siano ancora, ma sono molto diminuiti. Però c’è tanto lavoro da fare. Abbiamo intrapreso un percorso e siamo solo a metà, non abbiamo vinto la battaglia.

Roberto – Il Progetto Calamaio nasce proprio dal desiderio di intervenire a livello culturale. Ci rendiamo conto che rispetto a venti anni fa le cose sono molto cambiate. Nelle scuole si vedono delle carrozzine, è facile che un alunno abbia un compagno disabile. Ciò non toglie che il cammino sia ancora lungo, anche perché troppo spesso il bambino disabile a scuola è integrato solo formalmente, non realmente, in quanto vive più al di fuori della classe che dentro. Questo perché manca un’accettazione reale del limite: il disabile tira fuori la difficoltà di tutti ad accettare i propri limiti e ciò ti tocca nel profondo…

Stefania – Sconvolge l’ambiente che ti circonda, compreso un parco!

Matias – Apprezzo moltissimo il lavoro fatto dal parco perché permette ai bambini di scavalcare la disabilità.

Roberto – Bisogna riconoscere che in generale sono stati fatti molti passi avanti, anche a livello di servizi. Esistono però ancora delle barriere culturali. Io stesso lo devo riconoscere per primo. Lavoro ormai da tanti anni con la disabilità: ho sempre lavorato con bambini con problemi mentali e non mi ero mai approcciato con la disabilità fisica, avevo una difficoltà personale a farlo.

Quando sono entrato nel gruppo ho dovuto perciò intraprendere un mio percorso e andare nelle scuole mi ha permesso di capire quanto i bambini siano più recettivi.

FV – Non c’è bisogno di dire che è stata un’esperienza positiva.

Roberto – Per noi è stata un’esperienza molto interessante perché il rischio di fare un lavoro, anche divertente e creativo come questo, è che dopo venti anni sei sempre a dire le stesse cose per quanto ci sia necessità…

Stefania – E a fare le stesse cose.

Roberto – Dopo un po’ c’è il rischio di chiudersi. Al contrario queste esperienze ti obbligano a uscire, non dimenticando il proprio passato, ma reinventandolo e ricontestualizzandolo ogni volta. Il contatto con i bambini ci ha consentito di mettere la disabilità in secondo, ma anche in terzo, quarto piano perché prima di tutto c’erano la natura e la storia, e solo in fondo, Stefania sulla carrozzina o Matias che parla in modo un po’ strano.

Stefania – E non nella solita aula che ormai conoscono a memoria!

Salutiamo Roberto, Stefania, Matias e Daniela.

 

Donatella Stinga