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Archive for Cinema – Media – Educazione

Piccoli appunti per una nuova visione di “Le mépris” di Jean-Luc Godard

_Bardot

 

di Fabio Matteuzzi

Alla presentazione della versione restaurata di Le Mépris (Il disprezzo, 1963), film che Jean-Luc Godard trasse dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, tenutasi presso il Cinema Lumière di Bologna, Alain Bergala, introducendo la proiezione del film, ha messo in evidenza alcuni aspetti interessanti, utili sia per contestualizzare il film di Godard, la sua realizzazione, sia per ricordare le difficoltà con la produzione, i tagli che il film dovette subire in particolare nella versione italiana.

Per fare questo è partito dalla citazione di un film come Le mystère Picasso, documentario che Henri-George Clouzot realizzò nel 1956, con la partecipazione dello stesso pittore. In particolare Bergala ha citato una sequenza, ben nota, in cui vediamo Picasso dipingere, nelle varie fasi del suo atto pittorico fino a quando l’immagine (cinematografica) si sofferma su un’immagine (pittorica) mostrandola così come essa è stata concepita. Il quadro, a questo punto sembra definito, “perfetto”, l’opera terminata. Tuttavia si tratta solo di una pausa. Picasso interviene ancora, modificando quello che aveva appena realizzato e alla fine ci troviamo di fronte a qualcosa di differente, che possiamo considerare meglio (o peggio) di quanto visto in precedenza.

Godard – afferma Bergala – fa la stessa cosa. Negli anni Sessanta, Godard affronta il gesto cinematografico nello stesso modo: frantumando i piani. L’opera che viene portata a compimento non è dunque che una realizzazione tra le tante possibili. La morale che si può trarre da questa concezione, da questa modalità del fare cinema, è che non esiste ordine senza disordine, non c’è armonia senza disarmonia. L’unica eccezione, nella carriera di Godard, tuttavia è proprio Le mépris”. “È un film perfetto, un film a cui Godard non lascia il potere di autodistruggersi. È un oggetto, una scultura che si erge indipendentemente dalla storia, vive nella sua perfezione.” Perché è perfetto? In primo luogo bisogna considerare le condizioni della produzione. Godard non ha mai realizzato un film all’interno della produzione cinematografica come accaduto in questo caso. I finanziamenti sono arrivati più consistenti perché tra gli interpreti c’era Brigitte Bardot e questo è uno degli aspetti di una costruzione economica bizzarra, considerando che si tratta di un film di Godard. Il finanziatore ufficiale era Joe Levine (anche se era Carlo Ponti che deteneva i diritti per la trasposizione cinematografica dell’opera letteraria di Moravia), questo comportava diritti per la distribuzione negli USA, e rispetto al finanziamento iniziale, la partecipazione della Bardot, decuplicò le risorse disponibili, anche se poi furono utilizzate proprio per la presenza dell’attrice più che per il film nel suo complesso.

In secondo luogo Godard scrive per la prima volta una sceneggiatura tradizionale, obbligato a scrivere e seguire scene organizzate attraverso la scrittura. Bizzarramente Godard era contento di questo, e sul set c’era un’atmosfera tranquilla.

 

Presenze

In terzo luogo la presenza della Bardot. Fu Brigitte Bardot a scrivere a Godard “mi piacerebbe fare la parte di Camille”. Ora, bisogna considerare che per il gruppo dei Cahiers du Cinéma, battagliera rivista in cui Godard si formò cinematograficamente, la Bardot era stata la rivelazione di un’attrice che si muoveva e parlava in modo nuovo. La sua presenza quindi non poteva non mutare totalmente la concezione del film. La sceneggiatura scritta prima dell’irruzione di Brigitte Bardot si sviluppava secondo un andamento più attento alla psicologia dei personaggi, in particolare della coppia protagonista. Invece “la presenza della Bardot imponeva di essere presa in blocco, qualcosa nei cui confronti ogni interazione veniva meno, come si trattasse di una scultura. Non si entra nella psicologia del personaggio da lei interpretato. Non è possibile entrare nella sua testa così come nei suoi sentimenti”.

Nel film, in alcune scene ambientate nell’appartamento romano della coppia Piccoli-Bardot, c’è una statua. In un momento in cui il personaggio interpretato da Piccoli è arrabbiato a seguito di un alterco con la moglie, dà un colpo alla testa della statua, colpo idealmente diretto a Camille e alla difficile comprensione del suo atteggiamento per Piccoli.

Ma, ha proseguito Bergala. la situazione provocata dalla presenza della Bardot permette di sfuggire dai vincoli del romanzo di Moravia. Permette la nascita di una nuova Camille, meno legata al personaggio letterario in grado di nascere, dunque, cinematograficamente.

D’altro canto, un’altra presenza incombe in questo film, quella di Fritz Lang, di un vero monumento della storia del cinema, che Godard ama. Lang non è qui un personaggio, è proprio lui, figura reale e “divina” al di sopra dei piccoli eventi degli esseri umani. Detentore di un sapere che non può essere dato se non a prezzo di una continua trasformazione e di compromessi.

Quarto: Villa Malaparte, ideata dallo scrittore Curzio Malaparte nell’isola di Capri, è il luogo in cui si svolge la seconda parte del film. Non si tratta di un’abitazione, ma di una ‘scultura’ posta sul paesaggio, appoggiata su una roccia sul mare. Impossibile immaginarla in altro luogo. La sua scelta per Le Mépris è sostanzialmente casuale. Godard non amava fare ricerche sulle locations, vi mandava degli assistenti. Anche quando queste venivano scelte non vi si recava prima della fase delle riprese. Nella fase preparatoria del film Godard sapeva solo che voleva una villa per le riprese e chiese a Charles Bitsch, assistente alla regia, di occuparsene. Allora la villa era nota solo agli architetti. Bitsch ne rimane colpito e si reca in Comune per maggiori informazioni. Lì scopre che alla villa erano stati apposti i sigilli giudiziari. Attraverso Carlo Ponti paga perché possano essere tolti i sigilli temporaneamente, per il periodo necessario alle riprese. Fu solo dopo la realizzazione del film che la villa è diventata famosa anche per i non addetti ai lavori.

C’è una questione che riguarda la modernità tra la villa e il film di Godard. Alcuni aspetti sono presenti già negli scritti di Malaparte: niente cemento né mattoni, solo pietra viva. “Questo è il cinema di Godard” afferma Bergala “Esattamente l’approccio di Godard, un blocco dietro l’altro.”

Godard del resto è l’unico a occuparsi della sceneggiatura, l’unico ad avere in mano la trasformazione di un testo letterario in una sceneggiatura che poi si trasformerà ancora in fase di ripresa. Godard accompagna il testo, la storia, se vogliamo, e i personaggi attraverso i corpi degli attori, attraverso il suo stesso corpo prestato al film come assistente alla regia di Fritz Lang, autore del film di cui il film stesso parla, cioè l’Odissea. Nel fare questo si nasconde, lasciando a Michel Piccoli (e al suo personaggio di scrittore-sceneggiatore) l’onere e l’onore di parlare con Fritz Lang delle possibili interpretazioni dell’Odissea.

Presentare un film ormai entrato nella storia del cinema impone di saperne parlare con precisione e leggerezza. Inevitabilmente si affaccia un legame che è più di una citazione: Viaggio in Italia di Roberto Rossellini. La natura, il mediterraneo e la sua luce. Mediterraneo che comporta la presenza di antichi dèi (anche attraverso la scusa della realizzazione di un film tratto dall’Odissea), Nettuno su tutti. Quel Nettuno che Godard riprende partendo dalla mano e proseguendo in un movimento circolare, avvolgente. Sembra che la mano alzata della raffigurazione del dio pagano segni la vita degli esseri umani. Ma anche la presenza, in Le Mépris come in Viaggio in Italia di una coppia di stranieri che vivono, sia pure per motivi differenti, la crisi del loro rapporto di coppia, in un paesaggio che non appartiene loro e con il quale è difficile rapportarsi, difficile dialogare, un paesaggio che spiazza e in cui viene alterato il normale rapporto di coppia, presentando quelle “affinità generiche” come dice Bergala che non sono casuali.

Film sul cinema stesso infine, fino al punto che la base narrativa di partenza, il romanzo di Moravia – piuttosto ingombrante per la celebrità dell’autore, che già per altro aveva suscitato interesse da parte del cinema (nel momento in cui Godard gira Le Mépris già una decina di film sono stati tratti da altrettanti opere di Moravia) – è in secondo piano, rispetto alla presenza di Lang, ovviamente, ma anche di Jack Palance, che simboleggia la presenza (e l’amore di Godard) del cinema americano a cui va aggiunto il confronto con Rossellini.

Si può dire che la matrice principale del lavoro godardiano sia Viaggio in Italia di Rossellini. All’estero possono dire che Le mépris ne sia un remake. Per Godard Viaggio in Italia è stato uno dei più importanti della sua formazione giovanile. Realizzare il Disprezzo quindi non significa tanto confrontarsi con l’opera letteraria di Moravia ma seguire i passi di Rossellini. Così come in Viaggio in Italia, personaggi provenienti da paesi diversi parlano ognuno la propria lingua, così anche Godard privilegia questo aspetto. Le sceneggiature inoltre hanno affinità generiche: una coppia straniera in Italia e un appartamento in vendita. Inoltre c’è qualcosa di nevrotico nelle riprese che ricorda Stromboli, altro film rosselliniano. Si tratta appunto di similitudini, non di citazioni,  di affinità generiche che tuttavia sono sufficienti a fare sì che Godard nel suo film possa ripercorrere le orme di un suo ideale maestro, ben al di là di ciò che lo legava al testo moraviano.

 

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Regia e sceneggiatura: Jean-Luc Godard

Soggetto: dal romanzo Il disprezzo di Alberto Moravia

Fotografia: Raoul Coutard

Montaggio: Agnès Guillemot

Musica: Georges Delerue

Interpreti: Brigitte Bardot (Camille), Michel Piccoli (Paul), Jack Palance (Jeremy), Georgia Moll (Francesca), Fritz Lang (sé stesso), Jean-Luc Godard (assistente alla regia), Raoul Coutard

(operatore), Linda Véras (sirena).

“La bionda del Kontiki”, un romanzo di Katia Ceccarelli

Edito nell’ancora vicino 2016 dalla casa editrice Edizioni e/o, “La bionda del Kontiki” è un romanzo nato dalla penna di Katia Ceccarelli, già autrice nel 2006 del saggio “Lolite. Storie e visioni di piccole seduttrici” per Nuovi Equilibri/ Stampa Alternativa.

Una penna scorrevole e raffinata quella che dipinge con pochi tratti il personaggio principale, Teresa, sposata con Ovidio dalla quale ha avuto due figli, ed il suo mondo fatto di piccoli piaceri e una ricerca incessante del proprio io, del proprio spazio vitale. Perché non sempre la famiglia che ci creiamo riesce a soddisfare le nostre aspettative ed è questa la consapevolezza che nasce in questa donna alle soglie dei sessanta. La consapevolezza che non è mai tardi per sentirsi apprezzati, per tentare di riscoprire se stessi e le proprie passioni.

Passioni che emergono dopo una piega dalla parrucchiera di fiducia, passioni con le quali mettersi alla prova anche a costo di sentirsi inadeguati, passioni tramite le quali conoscere nuove persone e rompere la monotonia di un’esistenza. Il Kontiki, scenario privilegiato di questa rinascita, è un locale dedicato agli appassionati di ballo, un luogo dove dimenticare i problemi ed abbattere i muri creati dalle dicerie di paese e sentirsi finalmente liberi da condizionamenti.

Una sensazione che riporta alla mente quella del protagonista di un celebre film “Shall we dance?” del 2004 diretto da Peter Chelsom ed interpretato dal Richard Gere, nel quale l’avvocato di successo di Chicago John Clark, pur avendo tutto dalla vita, decide di iscriversi a una scuola di ballo per avere nuovi stimoli ad affrontare la sua situazione di costante insoddisfazione.

Una sensazione di rinnovamento fisico e psicologico che accomuna il protagonista del film con Teresa, sebbene con molte differenze a livello narrativo e con vari aspetti da tenere in considerazione, primo fra tutti l’assai diverso modo di ampliare le prospettive da parte degli uomini e delle donne. Differenze tra uomini e donne che emergono anche nel libro in più di un’occasione, quando ad esempio Teresa si ritrova di nuovo alle prese con turbamenti amichevoli ed amorosi, prima con Lando, rinomato viveur sessantacinquenne con lo spirito di un ragazzo, poi con Jolanda, della compagnia del Kontiki e che si sente minacciata dalla nuova arrivata, ed infine con il misterioso Blek, anche lui un habitué del locale al centro di tanti accadimenti.

La leggerezza, nell’affrontare un tema femminile così presente nella realtà, è insita nel racconto della Ceccarelli ed è data da uno stile che non lascia spazio a lunghe descrizioni a favore di un andamento brioso della vicenda. Uno stile asciutto che fa di questo romanzo una piacevole lettura, una piccola sorpresa della narrativa italiana, nella quale l’amore fa solo da sfondo a una narrazione che tenta di far riflettere il lettore sulla condizione di moglie e di madre nel quale, alle volte, la donna si sente rinchiusa come in gabbia.

Di semplice costrutto, “La bionda del Kontiki” sorprende per la vicinanza alla dimensione quotidiana, intessuta però di rimandi profondi nei quali l’autrice lascia  intravedere piccoli riferimenti a quei non – luoghi, spazi dell’anonimato frequentati da individui simili ma soli, di cui Marc Augé iniziò a parlare nel 1992 e che vengono qui stilizzati cogliendo appieno la realtà di quei centri commerciali in cui Teresa cercherà disperatamente di ritrovare se stessa, senza rendersi conto che è proprio in luoghi come quelli che rischia di cadere nell’omologazione e nella perdita della sua parte più vera. Ester Gugliotta

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Nota itinerante su Pier Paolo Pasolini e i giovani

Pier Paolo Pasolini

di Pasquale Misuraca (giugno e luglio e agosto 2011)

 

Lunedì 4 luglio 2011

Mi trovo a Castel di Sangro, un paese montano in provincia de L’Aquila. Mattina. Maestri di sport e giovani sportivi. Si allenano, si parlano. Commovente. Pomeriggio. Leggo la Repubblica. Uno, due, tre articoli delle prime e seconde e terze pagine, leggo e non posso non pensare a Pasolini. Pasolini inutile.

Gli articoli infatti parlano di ‘politica’ (italiana) raccontando e analizzando niente altro che il ‘Palazzo’. Sì, la politica (in Italia) è ridotta, su tutti i mezzi di comunicazione di massa, giornali, radio, televisioni, e persino sui mezzi di comunicazione reticolare, blog, siti, social network, alle gesta e alle opinioni degli uomini dei partiti, delle istituzioni, delle burocrazie, delle corporazioni: il ‘Palazzo’. Sento risuonare dentro di me le inutili osservazioni pasoliniane del 1975 – cito a memoria, trascrivendo con la penna sul giornale: Soltanto ciò che succede dentro il ‘Palazzo’ è considerato degno di interesse. Il resto è minutaglia, brulichio, informità.

Chiudo il giornale, il pessimismo dell’intelligenza, lo riapro, l’ottimismo della volontà. E m’imbatto in un’intervista di Simonetta Fiori a Goffredo Fofi, “fondatore di riviste e di progetti” lo definisce il redattore. Lascia stare Pasolini, mi dico, e leggi cosa pensa oggi dell’Italia e del mondo questo intellettuale non stupido, hai letto due o tre suoi buoni libri di cinema, leggi e apri le orecchie.

Ma Simonetta ha la cattiva idea di interrogarlo su Pasolini. Domanda: “Lei è molto critico con Pasolini, accusato di idealizzare la povertà.” Risposta: “Pasolini enfatizzava l’Italia arcaica, ma sbagliava. Anni fa portai a Gubbio una coppia di intellettuali milanesi. C’era ancora mia madre, appena tornata dalla Francia dove i miei genitori erano emigrati: lei faceva la stiratrice, mio padre il gruista. I giovani amici le chiedevano entusiasti di evocare un passato incontaminato, lei felice li assecondava, quando all’improvviso s’incupì: ‘Oh ragazzi, io dirò sempre una preghiera per quello che s’è inventato il cesso dentro casa’“

Trentasei anni sono trascorsi dalla morte di Pasolini, e un italiano intelligente dice ancora questa stupidaggine – condivisa del resto da tanti intellettuali. I quali leggono e rileggono Pasolini senza resistere alla tentazione di ricondurlo, cioè di ridurlo, ai propri interessi, alle proprie ideologie, alle proprie speranze, ai fantasmi della propria gioventù, alle battute della propria mamma.

 

Sabato 9 luglio 2011

Di ritorno a Roma, ritrovo il testo dell’intervento che ho svolto il 2 novembre 2005, alla Triennale di Milano – nell’occasione del trentennale della morte violenta di Pasolini. Ne trascrivo parte della parte relativa a Pasolini – in quella ‘charla’ collegavo la sua figura e la sua opera alle opere e alle figure di Gramsci e Gesù.

“…Pasolini degli Scritti Corsari, delle Lettere Luterane, dell’‘Ultima Intervista’ registrata da Furio Colombo poche ore prima della sua venuta a morte.

Cosa ha pensato e detto Pasolini della ‘crisi’, che smascherava i potenti (rendendoli ridicoli) e

omologava i giovani (rendendoli infelici)? Pensava e diceva che era in corso ‘una nuova grande rivoluzione passiva’, il cui centro motore era il ‘Nuovo Potere Reale’ e gli effetti concreti ‘una grande mutazione antropologica’, insomma che quella sua, che questa nostra, non era, non è una crisi congiunturale, bensì è una ‘crisi organica’ (Antonio Gramsci, ‘Quaderni del carcere’).

Ora, allora, come hanno reagito i suoi ‘amici’, al suo pensiero teorico e alla sua rappresentazione ideologica? In vita dicendo che Pasolini esagerava drammaticamente il presente e rimpiangeva nostalgicamente il passato. E in morte ripetendo infinite volte e in tutte le salse che alla base della sua morte c’era un ‘complotto’ – un complotto che aveva come mandante ideologico la borghesia e come esecutori materiali i fascisti. A parole cioè i suoi ‘amici’ riconoscevano in Pasolini un fratello-maestro, nei fatti disconoscevano il suo pensiero teorico e la sua rappresentazione ideologica.

Infatti Pasolini aveva scritto chiaro e tondo che nell’Italia degli anni Settanta vivevano e vagavano ‘giovani infelici’ non più fascisti, non più comunisti, immersi come erano in un ‘vuoto culturale’, i quali potevano uccidere e uccidevano ‘senza mandanti e senza scopo’, e aveva conseguentemente detto fino alla fine, fin nell’intervista a Furio Colombo, che l’idea del ‘complotto borghese e fascista’ è delirante, facile, semplice, consolatoria. Leggo: ‘Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità. Che bello se mentre siamo qui a parlare qualcuno in cantina sta facendo i piani per farci fuori. E’ facile, è semplice…”

Martedì 12 luglio 2011

Viaggio in Sicilia. Bagheria, infiorata, inondata, soffocata, da misteriosi convolvoli, è un inferno. A malapena riesco a posteggiare. Così tutte le coste, da Punta Raisi verso est. Il mare s’intravvede a stento. “Cosa hanno da gridare questi giovani? Noi abbiamo visto il mare. Loro non lo vedranno più.” – recito rivolto ad Alexandra, la mia complice, citando Pasolini – lei sa di cosa parlo. Fuggiamo verso il Parco delle Madonie: le montagne ancora si vedono in Sicilia.

Sto di fronte alla rocca di Geraci Siculo, tiro fuori un libro che mi sono portato dietro per il viaggio e leggo, rileggo, si tratta di Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti 1975: forse sono io che ho capito male Pasolini, mi dico: era un nostalgico del bel tempo che fu e non me ne sono accorto (mentre realizzavo in trenta anni di lavoro intellettuale un programma televisivo, due documentari, un cortometraggio, un film, e scrivevo un articolo, un saggio, un progetto di documentario, e non mi ricordo più cosa, a partire dalla ‘realtà effettuale’ – Machiavelli – del mondo come intravista nella sua opera):

 

“8 luglio 1974.

Caro Calvino,

Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’<età dell’oro>, tu dici che rimpiango l’ <Italietta>: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio… Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto)… è il mondo contadino, il mondo sottoproletario, il mondo operaio, il mondo pre-borghese.

Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.

 

26 luglio 1974

Io vivo nelle cose, e invento come posso il modo di nominarle. Certo se io cerco di <descrivere> l’aspetto terribile di un’intera nuova generazione, che ha subìto tutti gli squilibri dovuti a uno sviluppo stupido e atroce, e cerco di <descriverlo> in <questo> giovane, in <questo> operaio, non sono capito: perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di <questo> giovane, di <questo> operaio. Invece a me personalmente è la sola cosa che importa.

 

Martedì 19 luglio 2011

Di nuovo a Roma. Sotto i pini del Parco di Colle Oppio leggo un libro di Ryszard Kapuściński, Lapidarium, e latolineo questo suo appunto: “Czesław Miłosz: ‘Non è forse una caratteristica di tutti gli intellettuali di questo secolo la fuga dal singolare al plurale?’ (Rok myśliwego, 1991)”

Lo collego mentalmente a quel brano di Pasolini: “…se io cerco di <descrivere> l’aspetto terribile di un’intera nuova generazione, che ha subìto tutti gli squilibri dovuti a uno sviluppo stupido e atroce, e cerco di <descriverlo> in <questo> giovane, in <questo> operaio, non sono capito: perché al sociologo e al politico di professione non importa personalmente nulla di <questo> giovane, di <questo> operaio…”

 

Mercoledì 20 luglio 2011

La questione del ‘rimpianto’ di Pasolini per un mondo pre-borghese mi gira ancora in testa. Tendenza alla ruminazione e al perfezionismo. Ma ‘rimpianto’ esattamente di cosa? Non della povertà. Rimpianto dell’autonomia culturale dei gruppi sociali subalterni. (Gramsci) Oggi omologate. (Pasolini)

Come? Che c’entra Gramsci con Pasolini? Sto a casa, apro i ‘Quaderni’, rileggo e trascrivo: “Lo Stato antico e quello medioevale era, in un certo senso, un blocco meccanico di gruppi sociali e spesso di razze diverse… i gruppi subalterni avevano una vita, a sé, istituzioni proprie ecc. e talvolta queste istituzioni avevano funzioni statali, che facevano dello Stato una federazione di gruppi sociali con funzioni diverse non subordinate… Lo Stato moderno sostituisce al blocco meccanico dei gruppi sociali una loro subordinazione all’egemonia del gruppo dirigente e dominante… Le dittature contemporanee aboliscono legalmente anche queste nuove forme di autonomia e si sforzano di incorporarle nell’attività statale: l’accentramento legale di tutta la vita nazionale nelle mani del gruppo dominante diventa ‘totalitario’. (Quaderno 25, Ai margini della storia – Storia dei gruppi sociali subalterni.)

Pasolini vede accadere negli anni Settanta in Italia ciò che accade nella civiltà moderna dalla fine della civiltà medioevale all’inizio del Novecento, quando entra in crisi organica la civiltà moderna. Gramsci questo ‘vede’ nei Quaderni, e su questa visione scientifica fonda la scienza della storia e della politica.

 

Giovedì 21 luglio 2011

Mi trovo a Centocelle, un quartiere popolare di Roma. Ha le case basse, si deve il cielo a Centocelle, agrumi e paltas nei cortili, popolani e immigrati per le strade. Mi sono portato dietro le Lettere luterane. All’ombra di un platano, aspettando il mio turno all’ufficio della circoscrizione, ritrovo il testo ‘I giovani infelici’, che si apre con queste parole: “Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.” e si chiude con

queste parole: “In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.”

Lo traduco nel linguaggio della scienza della storia e della politica: viviamo una crisi di civiltà ma non lo sappiamo. Noi padri. E questo lo pagano i nostri figli. I giovani, che per questo, per questa nostra colpevole ignoranza, vivono infelicemente.

Mi guardo intorno e vedo ciò che leggo in Pasolini grande descrittore della fase terminale della crisi organica: “I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà. Il loro pensiero è perpetuamente altrove. Nei casi peggiori sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti.”

Da quattro di questi giovani infelici Pier Paolo Pasolini è stato ucciso, nella notte tra l’uno e il due novembre 1975.

Ma vedo anche, intorno, a Centocelle, giovani felici, in quantità. Non c’erano al tempo delle Lettere luterane? O Pasolini non sapeva vederli?

 

Venerdì 22 luglio 2011

Chi leggerà questa nota su questa rivista? Vorrei essere letto da Gennariello, ecco da chi, l’idealtipo sociologico definito da Pasolini, un adolescente che frequenta le ultime classi dell’obbligo, “se non un miracolo, certo un’eccezione, questo sì” (Lettere luterane, Sezione prima: Gennariello – Paragrafo primo: come ti immagino).

E vorrei essere letto da quegli adolescenti (ora diventati adulti, e quasi miei coetanei) che ho visto con questi occhi e ascoltato con questi orecchi nel settembre del 1972, ero giovane allora e avevo 24 anni, ed ero andato alla Libreria Ferro di Cavallo, a via Ripetta di Roma, alla presentazione del libro di Pier Paolo Pasolini Empirismo eretico, per vederlo discutere con gli intellettuali, gli scienziati, i politici, i letterati che lo contrastavano, che lo irridevano, ma quelli non c’erano, erano nei propri salotti – allora pensai: erano “sui gradini del Palazzo” (Roberto Rossellini) – ho pensato qualche anno dopo. C’erano una ventina di adolescenti felici e infelici, si sono seduti a terra, in circolo, con Pier Pasolini adolescente tra gli adolescenti, ed erano più le domande che lui faceva loro che loro a lui.

 

Sabato 23 luglio 2011

Paola, in provincia di Cosenza. ‘Paola in jazz.’ Maestri e Allievi, Vecchi e Giovani, Padri e Figli – in armonia. Il decentramento pienamente riuscito. Giovani felici, in quantità. Concerto di chiusura. Chissà cosa ne avrebbe pensato Pasolini.

 

Martedì 2 agosto 2011

Navigando nel Gruppo Facebook AMICI DI PASOLINI, vengo a conoscenza di un video che non conoscevo: http://www.youtube.com/watch?v=uKnwddtANK0

Si tratta di una intervista audio-video registrata (apparentemente) sul set di Salò. L’intervistatore domanda: “In che modo la lezione di questo film potrebbe essere capita dai giovani che ci circondano?” E Pasolini risponde: “Mah, io credo che i giovani non lo capiranno. Non mi illudo di essere capito dai giovani, perché coi giovani è impossibile instaurare un rapporto di carattere culturale, perché i giovani vivono nuovi valori, con cui i miei vecchi valori in nome dei quali io parlo sono incommensurabili. Tutti i miei libri e tutte le mie opere narrative parlano di giovani, li amavo e li rappresentavo, adesso non potrei fare un film su questi imbecilli che ci circondano… Questa nuova generazione di giovani, odiosa, nella massa, perché poi c’è un’infinità di eccezioni, ancora, abbastanza…”

 

Venerdì 5 agosto 2011

Sto a Genova, a trovare Giuliano Cabrini, un amico di lunga data. È caduto, si è rotto la testa, è in ospedale, si sta riprendendo. Gli dico che sto scrivendo un ‘intervento’ su Pasolini. Si illumina in volto. Mi viene in mente l’incipit di un suo racconto, poi, attraverso il computer, nel sito-rivista del quale siamo coautori, ritrovo il brano preciso: “Chi può amare un riccio? Si può amare un cane che si lascia accarezzare il pelo morbido mentre lecca la tua mano, si può amare un gatto che fa le fusa e si struscia alla tua gamba, si può persino amare un topo che sale sul braccio per arrivare al tuo viso e appoggiare la sua testa sul collo. Ma chi può amare un riccio?”

Pasolini era un riccio.

 

Sabato 6 agosto 2011

Ancora a Genova, leggo su la Repubblica.it la settima tappa dell’inchiesta di Paolo Rumiz, ‘Le case degli spiriti’. Questa volta va ad Africo, paese d’Aspromonte. Ma prima di andarci ascolta due suoi passati abitanti, che ora vivono, vecchi, a Bova Marina.

“La memoria di Africo era scesa a valle, e a Bova Marina si incarnò in un’anziana tabaccaia che dormicchiava su una poltrona presso il bancone. Angela Bruzzaniti si chiamava, e il figlio Pasquale, che badava ai clienti, la scosse dal torpore spiegando che uno del Nord era sceso fin lì per sentire le storie del paese. Angela si stropicciò gli occhi, sorrise, disse: “Era bello lassù. C’era musica e ballo. Nella banda suonavo l’armonium. Eravamo poveri e allegri”.

Sul retro dormicchiava in poltrona anche il marito di lei, Domenico, anni 94. Africo per lui era altra cosa: miseria, burroni, alluvioni, vita “allo stato primitivo come bestie”. “Si mangiava pane e lenticchie, qualche fico, castagne. Il prete faceva anche da medico, ti dava gli infusi e poi i sacramenti”. C’era da chiedersi se lui e la moglie avessero visto lo stesso luogo.”

Mi chiedo se Fofi (e Calvino eccetera) e Pasolini abbiano visto lo stesso luogo, la stessa Italia, lo stesso mondo.

 

Lunedì 15 agosto 2011

Roma. Ferragosto. Mattina presto. Passano gli anni e mi sveglio sempre più presto. Lavoricchio tre ore e schizzo fuori casa per mettermi il cielo sulla testa, uscendo pesco un libretto rosso nella libreria dell’atrio, è Dialogo con Pasolini. Scritti 1957 – 1984, raccoglie tutti gli scritti di Pasolini e “un’ampia scelta degli articoli sullo scrittore e sulla sua opera” (nota ai testi di Alberto Cadioli) usciti su ‘Rinascita’ (“mensile politico-culturale del Partito Comunista Italiano fondato da Palmiro Togliatti nel 1944” – Wikipedia)

Veramente, avevo deciso di non leggere più niente di Pasolini e su Pasolini, fino agli ultimi giorni di agosto, quando sarebbe venuto il tempo di rileggere il già pensato e scritto, apportarvi qualche minuscola correzione formale.

Ma non ho resistito al titolo del libro. Dialogo con Pasolini. Su ‘Rinascita’. Dialogo dei compagni del Pci con Pasolini. Dialogo? Hanno dialogato, i compagni del Pci, con Pasolini? La domanda che mi faccio riporta il mio pensiero all’appunto su Fofi intellettuale di partito e Pasolini, e decido di riconsiderare ancora una volta, con i testi sottomano, i dialoghi degli intellettuali di partito con Pasolini.

Scelgo una panchina di legno e ferro sotto un cedro del Libano di Villa Celimontana, e leggo, rileggo. La maggior parte degli articoli li ho letti quando ho acquistato il libro, con il mensile, come suo “inserto redazionale allegato al n. 42 del 9.XI.1985”. Arrivo, verso la fine, ad ‘Americanismo e disperazione,’ “il lungo articolo di [Fabio] Mussi [che] uscì, con lo stesso titolo qui proposto, sul n. 26 (28 giugno), 1974, pp. 17-18, come intervento nella polemica nata dall’articolo di Pasolini ‘Gli italiani non sono più quelli’, apparso sul Corriere della Sera del 10 giugno 1974”. Mi rileggo pure questo, pensando che ora, oggi, 2011, Mussi è un due di coppe della cultura ‘di sinistra’, ma allora, nel 1974, era un cavallo di coppe, e galoppava, grazie anche ad articoli come questo: “nel 1979 entra nel Comitato Centrale del PCI: per permettere il suo inserimento, venne abbassata di 3 anni l’età minima per entrare nel Comitato Centrale del PCI. Nello stesso anno è nominato responsabile delle pagine culturali; vice-direttore di Rinascita; vice-responsabile della sezione stampa e propaganda e in ottobre responsabile del settore.” (Wikipedia)

Mussi prima sfoggia la sua preparazione culturale, cita Ferrara e Calvino e Colletti e Fortini e Sciascia, addirittura Gramsci, e poi la sua determinazione dirigenziale: bacchetta Pasolini, perché “si è lasciato sfuggire l’intelligenza dei fatti nuovi avvenuti nel corso degli anni sessanta, a cominciare dal rapporto nuovo che si è andato (con tanta fatica, è vero [sic]) ricostruendo tra intellettuali e popolo, e tra le nuove generazioni e il movimento operaio, il suo programma e la sua memoria storica”.

Sfoggia, bacchetta, irride: “la passione [di Pasolini] per la tematica degli ‘esclusi’ e degli ‘anormali’, così cara al decadentismo europeo [e la] nostalgia [di Pasolini] di neorealismo, di facce segnate dalla fatica e dall’ignoranza che gli paiono fotogeniche, e che non trova più nei giovani meglio nutriti e meglio vestiti di questa società mutata.”

Mi vengono le lacrime agli occhi quando penso alla data. 1974. Stava per uscire l’edizione critica dei Quaderni del carcere di Gramsci. E i compagni del Pci si preparavano a non capirla, e si preparavano a non capirla non capendo Pasolini. Pasolini scrive negli anni settanta del Novecento di una crisi storica, e Gramsci scrive negli anni Trenta del Novecento di una crisi organica, scrivono della stessa cosa, la crisi di civiltà vista da Gramsci alla fine del suo inizio e da Pasolini vista all’inizio della sua fine. Ma i compagni del PCI hanno la storia in tasca e non prendono lezioni da nessuno. Uscirà nel 1975 l’edizione critica dei Quaderni del carcere, ma nessun intellettuale comunista italiano farà autocritica rispetto alla vulgata togliattiana che aveva guidato la composizione e la diffusione della prima versione a stampa dei Quaderni (1948-51), nessun intellettuale comunista italiano sentirà-comprenderà-capirà che Gramsci in gioventù era stato marxista, e comunista, e aveva fondato un partito comunista, certo, ma da grande, in carcere, pensando e scrivendo i Quaderni, era andato oltre il marxismo, oltre il comunismo, e addirittura oltre Marx.

Non hanno ascoltato Gramsci, figurarsi Pasolini – un poeta!

 

Domenica 21 agosto 2011

Mi trovo ad Acquasparta, un paesino umbro, per l’inaugurazione del Festival Federico Cesi. Viaggiando ho pensato alla passione pasoliniana per il decentramento. Di sera, al concerto, osservo giovani felici – le giovani donne organizzatrici, gli attenti ascoltatori. (“Questa nuova generazione di giovani, odiosa, nella massa, perché poi c’è un’infinità di eccezioni, ancora, abbastanza…”)

La notte, dopo il concerto, leggo Il Sole 24 Ore. In prima pagina una descrizione della XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, presieduta da Benedetto XVI a Madrid: “Una folla gioiosa… Una stupenda tavolozza… Trasparenza, lealtà, limpidezza degli occhi dei giovani, del loro sguardo, del loro cuore… Alcuni media hanno dato evidenza a qualche chiassosa contestazione di ‘laicisti’ radicali… Questo hanno annunciato i giovani convenuti a Madrid: l’alternativa al vuoto di valori, all’assenza di senso, all’evasione egoistica e inconsistente, esiste, ed è l’impegno di amore al servizio del bene comune, sostenuto dalla fede…” Bruno Forte – Arcivescovo di Chieti-Vasto

 

Giovedì 25 agosto 2011

Leggere mi diverte sempre di più, mentre invecchio. E invecchio diventando sempre più leggero. Non per disperazione – come Pasolini, e nemmeno per speranza – come gli arcivescovi. Divento sempre più leggero perché con Pasolini so che “il mondo ha eterni, inesauribili, cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo.” (Paragrafo settimo del ‘trattatello pedagogico’ intitolato ‘Gennariello’, in Lettere luterane), ma questo per me non ha significato e non significa il crollo, come per Pasolini: “Il crollo del presente implica il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine.” (‘Abiura dalla Trilogia della vita’ – in Lettere luterane)

Da quegli anni, gli anni delle Lettere luterane, studiando i Quaderni di Gramsci, e sviluppandoli creativamente con Luis Razeto, ho compreso a fondo il carattere organico della crisi che stiamo vivendo, una vera e propria ‘crisi di civiltà’, che però non è ‘la fine del mondo’, in quanto è possibile, e dunque necessario, costruire una nuova e superiore civiltà, e questo intorno a noi si sta facendo, confusamente e contraddittoriamente certo, ma si sta facendo, per opera di alcuni tanti giovani felici e di alcuni tanti artisti e intellettuali, attraverso una produzione artistica e intellettuale creativa e autonoma e solidale -, produzione alla quale noi stiamo partecipando dalla metà degli anni Settanta con la costruzione di una nuova scienza, la scienza della storia e della politica: http://pasqualemisuraca.com/sito/index.php/scienza/50-la-traversata.htmlhttp://pasqualemisuraca.com/sito/index.php/scienza/152-la-traversata.html

Pasolini ha visto e rappresentato il disfacimento della vecchia civiltà, non è stato capace di cogliere nella morte del vecchio la nascita del nuovo, in lui il morto afferrava il vivo (Marx), ma senza quella sua disperata descrizione non so quando avrei trovato il bandolo scientifico della matassa.

Ne rendo testimonianza.

La Maison de la Radio – regia di Nicolas Philibert (Francia, Giappone 2013)

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di Cesare Cioni

Il documentario cinematografico si presenta quasi sempre in una di due forme: quella in cui l’autore intende presentare una semplice documentazione della realtà, ritagliando per sé un ruolo di invisibile osservatore spassionato e neutrale (obiettivo in realtà impossibile, se non forse nel settore della divulgazione scientifica); e quella tutto sommato più onesta ma necessariamente di parte dell’opera « a tesi », se non addirittura militante, con la quale il regista si prefigge di dimostrare apertamente un punto di vista attraverso le immagini, spesso proposte in forma di inchiesta o reportage.
Nicolas Philibert, già autore di Essere e avere, documentarista che rivendica orgogliosamente il proprio ruolo di cineasta completo, con La maison de la Radio sceglie una terza strada. Non si nasconde, anzi: con il permesso della direzione generale la sua piccola troupe si è insediata per sei mesi nelle stanze e nei corridoi dell’edificio circolare del sedicesimo arrondissement progettato da Henry Bernard, una sorta di gigantesco alveare soprannominato, appunto, casa della radio, che ospita le emittenti radiofoniche nazionali francesi. I redattori, i presentatori e gli ospiti delle numerose trasmissioni che hanno accettato di essere ripresi erano ben consapevoli della sua presenza; ma Philibert si è astenuto dal sollecitarli o dal dirigerli in alcun modo, lasciando che svolgessero liberamente il proprio lavoro davanti alle telecamere, e raccogliendo ore e ore di filmato.
È nella ri-composizione del materiale, condensato in poco più di 100 minuti a seguire idealmente una giornata tipica della vita delle emittenti, che Philibert ha aggiunto il suo tocco personale. Data la natura del soggetto, ogni sequenza è scandita da voci e dialoghi – ma anziché da questi, è soprattutto attraverso l’intrecciarsi di sguardi, cenni d’intesa, sorrisi, rossori, ed esitazioni, che, dopo un primo momento di convulsa iperattività all’ingresso mattutino del personale delle emittenti, dai frammenti raccolti in un mosaico di sequenze, emergono, alternandosi e amalgamandosi, piccoli racconti e personaggi ben caratterizzati in pochi tratti.
Dalle redattrici che devono selezionare notizie originali e non ripetitive per i notiziari, all’équipe, alla ricerca del tono giusto in ogni frase di uno sceneggiato radiofonico; dal maestro di dizione che deve insegnare la corretta pronuncia tedesca a un coro francese, alla bionda speakerine dalla voce roca di una trasmissione per nottambuli; dalla timida insegnante di scuola in soggezione di fronte alle domande dell’anfitrione di un’importante trasmissione culturale, a un Umberto Eco in splendida forma, gattone sornione che in un elegante francese monopolizza l’attenzione degli ascoltatori, poco importa, in conclusione, sapere se e quanto il comportamento degli intervistati sia stato influenzato dalla presenza delle macchine da ripresa.
Il senso di questo bel film è invece dato da come queste piccole storie si compongono in un’affascinante riflessione cinematografica sul piacere del lavoro e l’orgoglio di professionisti alla ricerca dell’eccellenza nel quotidiano; e traducendo in immagini la vita e l’attualissima vitalità del medium che delle immagini sa fare a meno, La Maison de la Radio, implicitamente, riafferma l’importanza di un servizio pubblico che sappia davvero, e in senso letterale, dare una voce a tutte le istanze della società.

Ernest J. Gaines, Una lezione prima di morire, Mattioli 1885, 2010

Ernest Gaines

di Fabio Matteuzzi.   

Non possiamo prendere in considerazione un percorso educativo restringendolo esclusivamente all’ambito scolastico. Il rapporto e il confronto, imposto o perseguito, tra insegnante e allievo, è sì cruciale, ma non esaurisce l’ambito didattico: lo precede e lo oltrepassa, anche se è nella istituzione che trova una forma e la forza di una giustificazione politica e ideale. E’ una base, un elemento irrinunciabile e tuttavia insufficiente: deve avere altri nutrimenti, aprirsi al mondo e con esso confrontarsi, come un nuovo modo di vedere gli orizzonti, o meglio ancora, di dare coscienza dell’esistenza e della natura degli orizzonti. Dove questo rapporto riesce a essere autentico, entrambi, alla fine, se di fine si può parlare, sono cambiati, hanno acquisito una conoscenza, se non un sapere, maggiore, sono persone diverse. A tutto questo mi fa pensare un recente romanzo di Ernest J. Gaines dal titolo Una lezione prima di morire, edito da Mattioli.

La sinossi può essere raccontata in breve. Ambientato in un piccolo paese del sud degli Stati Uniti negli anni Quaranta è la storia del sedicenne Jefferson, ragazzo nero accusato ingiustamente di omicidio. Capitato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, viene giudicato e condannato a morte da una giuria di bianchi che lo considera un animale. In questa comunità vive Grant Wiggins, giovane insegnante, tornato nella piantagione dove è cresciuto, tra la sua gente, per insegnare a bambini che avranno ben poche opportunità nella vita. A lui si rivolgono la tutrice di Jefferson, il reverendo e la propria zia che con la tenacia di chi non ha nulla da perdere lo convinceranno ad accettare un incarico giudicato a prima vista impossibile. La sua missione sarà quella di dare un’educazione al giovane Jefferson per fargli affrontare la morte come un uomo. Wiggins dovrà dare a questo ragazzo sbandato e senza una famiglia l’educazione che non ha mai avuto e che non ha mai cercato per dimostrare, a quelli che l’hanno considerato colpevole, umiliandolo e insultandolo, che quello che stanno per uccidere è un uomo, che come tale chiede di essere considerato. Prima ancora che l’innocenza, è una lotta per il riconoscimento della dignità. La strada per la dignità passa, dovrà passare, per l’educazione. Wiggins e Jefferson, costretti dalle mura carcerarie, dai ritmi delle visite limitate da orari definiti,  dovranno inventarsi un modo personale e irripetibile di essere maestro e allievo. Non ci credono, ma dovranno provare ad avere fiducia che questo sia possibile. Se fallissero ciò costituirebbe l’inutilità della loro esistenza, di essere umano, per Jefferson, di insegnante per Wiggins.

In questo mondo contadino del profondo sud degli Stati Uniti, apparentemente immutabile, i destini sono già scritti. Non solo la vicenda di Jefferson, ma anche quella di tutti i personaggi, bianchi e neri, di questa comunità. Ognuno ha la propria strada segnata, indicata da una radicale separazione razziale e sociale. Così l’unico scarto, l’unica differenza che può manifestarsi (tale da essere oggetto anche di una scommessa tra lo sceriffo e un altro dei personaggi di contorno che hanno certezze preconcette sulla colpevolezza del ragazzo, nonché considerazioni razziste su di lui) è proprio sulla possibilità che Jefferson possa essere “educato”, che possa ricevere e fare propri degli insegnamenti che non ha potuto avere mai prima di allora. Un insegnamento che non servirà per un futuro, ma per il presente, il suo e quello di altri ragazzi come lui. Un insegnamento che non è un fatto intimo e personale, ma pubblico. Intimo e nello stesso tempo pubblico, perché pubblica è la considerazione che i bianchi hanno di lui, perché pubblica è stata la sua condanna. Più volontà che erudizione, più ciò che si è perso e non si è potuto avere che non le possibilità sfruttate o perdute. La fine è scritta fin dall’inizio. Il ragazzo è condannato a morte e nessuno gli toglierà questa condanna. Nessuno chiede più che venga liberato. Nessuno nemmeno si sogna di potere dimostrare la verità, ossia che Jefferson è innocente, perché l’opportunità e il pregiudizio hanno preso il posto della verità. In questo mondo ingiusto, a un giovane insegnante, ormai anch’egli deluso e privo della speranza che il proprio lavoro di insegnante possa effettivamente servire a qualcosa, possa davvero migliorare le condizioni dei piccoli abitanti neri del suo paese di origine, viene chiesto di fare quello che potrebbe sembrare un atto inutile, e che invece risulterà in tutta la sua potenza: dare un insegnamento al giovane ignorante Jefferson affinché possa affrontare la morte. E’ un paradosso. L’insegnamento serve per preparare al futuro, a una nuova vita. Per Jefferson questa non potrà che essere una dimostrazione di ciò che avrebbe potuto avere e non ha mai avuto, di ciò che avrebbe potuto essere (e con lui tanti altri) e non potrà mai essere. Ma questo insegnamento in realtà servirà da esempio e non sarà fine a se stesso. Sarà un insegnamento per la comunità dei bianchi quanto dei neri. Sarà un insegnamento anche per Grant Wiggins, per l’insegnante che a un certo punto capirà di stare facendo la cosa giusta. Forse lui stesso aspettava questo momento. La nuova vita non sarà più ormai quella di Jefferson ma di tutti coloro che rimangono e non potranno dimenticare quello che è successo: l’animale, il porco, ha camminato fino alla sedia elettrica come un uomo. Prima di morire ha lasciato un quadernetto per il maestro Wiggins dove ha segnato i suoi pensieri. Scritti in brutta calligrafia, pieni di errori grammaticali, che tuttavia dimostrano che dietro di essi c’era un giovane che pensava, che soffriva, rabbioso, pauroso e sensibile.

L’autore conosce questo ambiente. Ci è nato. Ormai adulto, scrittore affermato, è tornato proprio lì a vivere, nella piantagione che l’ha visto nascere a Pointe Coupee Parish, compiendo un percorso a ritroso, in parte analogo a quello dell’insegnante del suo romanzo, sennonché, Gaines ritorna quando è uno scrittore ormai famoso. Gli anni sono passati e certamente dei cambiamenti ci sono stati, dagli anni Quaranta, in cui è ambientato il romanzo, a oggi. Gaines sa rievocare con asciuttezza quel periodo, quel clima, quei sentimenti, quel mondo sonnolento della piantagione in cui la dignità era soffocata, in cui i diritti erano solo per pochi, e quand’anche quello all’istruzione era offerto anche ai più deboli, si configurava comunque un diritto frustrato per la mancanza di futuro dovuto al razzismo che divideva il mondo in buoni e cattivi, in innocenti e colpevoli. Il maggiore insegnamento, in questo ambiente, è allora il conseguimento della dignità.  E il caso estremo dell’istruzione di fronte alla morte, invece che di fronte alla vita – soprattutto per un adolescente – viene presentato e trattato come esemplare.

Grant Wiggins sa (tutti quanti sanno) che i bambini cui insegna, lui stesso, la ragazza che ama, sono figli e nipoti degli schiavi. Il percorso per togliersi di dosso questa eredità passa allora attraverso le mani di tutti questi personaggi che Gaines sa tratteggiare con precisione: la zia, il reverendo, la tutrice del ragazzo, lo stesso Wiggins, ma soprattutto è nelle mani di Jefferson.  Nelle mani di colui che è il più debole, la vittima. E’ in lui, che una comunità offesa e umiliata, può infine trovare un esempio per riscattarsi.

L’immagine attraverso i frammenti

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Longhi, Pasolini, Bergala, Arasse

di Fabio Matteuzzi. 

Daniel Arasse, in uno studio di grande fascino e rilevanza quale Il dettaglio1, ricorda, nella prefazione, che nel 1938 Kenneth Clark pubblicò 100 Details from Pictures in the National Gallery. La scelta di Clark, focalizzando l’attenzione su dettagli di una selezione di dipinti conservati nella National Gallery, rientra in un intento divulgativo.

Proponendosi di avvicinare un pubblico vario attraverso la pubblicazione di un volume illustrativo, la decisione di presentare le opere tramite i dettagli viene attuata per “il piacere dell’occhio” – come afferma Arasse – i dettagli sono “scelti per la loro bellezza intrinseca”2. La ricchezza di un museo viene illustrata e analizzata grazie a un punto di vista particolare. Più o meno nello stesso periodo (Clark nel 1938, Longhi – come possiamo vedere in altri interventi di questo volume e come è stato messo in evidenza nell’ambito del Convegno Filmagogia - nei primissimi anni Quaranta) due studiosi importanti, il primo in Gran Bretagna, il secondo in Italia, praticano una modalità critica e divulgativa nei confronti dell’arte filtrata dai dettagli.

Se per Clark questa idea deriva dalla preoccupazione di “vedere meglio i quadri, guardarli con maggiore attenzione”3, siamo in grado di dire la stessa cosa sulle modalità dell’insegnamento longhiano? Tra Clark e Longhi sono diversi il contesto e l’approccio. Col primo ci muoviamo in ambito prettamente divulgativo, con il secondo siamo invece nella dimensione accademica, seppur con un metodo che si rivela capace di lavorare all’interno dell’istituzione universitaria per proporre nuove modalità di confronto con le opere e di rapporto con gli studenti, nuovi modi di approfondire e studiare gli oggetti d’arte.

In fondo si tratta di due modalità didattiche differenti che, percorrendo strade autonome e rivolgendosi a un pubblico diverso, affrontano le immagini avvalendosi di un filtro particolare, quello costituito dai dettagli delle opere d’arte individuati in maniera totalmente soggettiva. Indipendentemente dal metodo usato, lo studio dei dettagli riserva sorprese in merito a quanto di stilistico e narrativo può esservi contenuto, e dispensa autentiche scoperte. Va da sé che questo tipo di scelte, questi percorsi originali, impongono, da parte di chi li esercita, non solo un’idea critica e pedagogica ben definita, ma una profonda competenza della materia.

All’inizio degli anni Quaranta, Roberto Longhi, durante le sue lezioni universitarie, introduceva nella metodologia dell’insegnamento l’apporto di un mezzo che sino ad allora non era stato sfruttato appieno per le sue valenze didattiche, ossia la diapositiva4. Grazie a queste proiezioni Longhi proponeva lo studio, l’analisi e la comparazione di dipinti, richiamando l’attenzione degli studenti su dettagli accuratamente scelti delle opere prese in considerazione. Lo sguardo di Longhi (era lui stesso l’autore delle diapositive) compiva una selezione rispetto alla totalità di un dipinto per condurre gli allievi alla visione di un’opera individuandone una parte ritenuta di particolare importanza da un punto di vista contenutistico e stilistico, in grado di permettere possibili comparazioni, o dotata, potremmo aggiungere, di uno specifico significato.

Probabilmente questa modalità fortemente soggettiva è tra gli aspetti determinanti che contribuirono alla “folgorazione” del giovane studente Pier Paolo Pasolini: l’originalità di uno sguardo che un occhio esperto e allenato ha a disposizione per poter cogliere ciò che rischia di passare inosservato. Anni dopo sarà egli stesso a dire che la passione per il cinema nacque proprio in seguito alle lezioni di Storia dell’Arte di Longhi, che ovviamente non avevano il cinema come precipuo oggetto di indagine, ma la modalità di insegnamento attuata da Longhi era portatrice di dinamismo.

In Arasse, dopo l’esperienza di Clark, si tratta di prendere le mosse da un esempio relativamente recente di attenzione al dettaglio, e sarà lui a condurci, con grande erudizione, in un viaggio lungo i secoli, alla ricerca della fortuna artistica e critica del dettaglio, avvalendosi di una ricca quantità di esempi, di dipinti, che, in alcuni casi e a seconda delle epoche, non solo possono svelare le specificità dell’opera in questione, ma anche eccederla, oppure distaccarsene, presentando un’autonomia rispetto all’opera nel suo insieme, all’interno della narrazione che l’opera presenta.

Arasse è ben consapevole di ciò che sta compiendo. Non cade nella tentazione di un’impossibile storia del dettaglio, anche se questa tentazione potrebbe affacciarsi, considerato che, nel corso dei secoli, la cura e l’attenzione ai dettagli ha avuto detrattori e appassionati sostenitori. Lo studioso francese riconosce che questo tipo di ricerca e di studio risente di scelte personali e soggettive5, ed infine ritiene che non possa esistere una vera e propria storia del dettaglio. Eppure tra insieme e dettaglio, tra il tutto e il particolare si sviluppa una tensione espressiva che chi osserva può esplorare e tenere in considerazione.

Lo studio di Arasse ci interessa perché persegue una ricerca mossa dagli stessi stimoli che ritroviamo in Clark quando presenta le opere della National Gallery, rivolgendo l’attenzione ai frammenti affinché siano proprio questi a rivelare qualcosa di più sui dipinti stessi e sulle intenzioni dell’artista. In tal senso, c’è una certa affinità con le riflessioni di Longhi, la cui pratica pedagogica stimolerà anche – nell’ambito cinematografico – il progetto didattico di Alain Bergala in particolare tramite il filtro di Pier Paolo Pasolini, allievo di Longhi.

Così quattro studiosi del Novecento, nonostante le differenze dovute alle rispettive formazioni, trovano nell’approfondimento delle opere d’arte, alla luce dei dettagli, da un lato una strada per “vedere” meglio, dall’altro per promuovere (avvalendosi inoltre di nuovi strumenti tecnologici) innovative capacità pedagogiche nell’arte. Il fascino dello studio di Arasse, quello della modalità critica e pedagogica di Longhi, l’intuizione editoriale di Clark, lo sforzo intellettuale e operativo di Bergala ruotano tutti attorno all’individuazione di un oggetto di difficile valutazione secondo criteri di obiettività scientifica. La soggettività dello studioso di fronte all’opera, proprio nell’individuazione di un dettaglio significativo, rischia di far venire meno quell’obiettività che tradizionalmente il ricercatore dovrebbe dimostrare, mentre s’accresce l’“esperienza della percezione” – per usare le parole di Arasse – e l’intimità con l’opera che può dare una “ricompensa” intellettuale impagabile.

Alain Bergala, nel suo testo L’ipotesi cinema6, ricorda l’influenza delle lezioni di Roberto Longhi sul giovane Pasolini. Operando all’interno dell’istituzione scolastica, Bergala sceglie di avvicinare i giovanissimi studenti al cinema come espressione artistica e ritiene interessante sfruttare le possibilità di singole sequenze filmiche, per metterle a confronto con sequenze di altri film.

Utilizzare perciò la piccola parte di un insieme sollecita ad un incontro con l’arte (sia pittorica, sia cinematografica o altro) sotto il segno della pedagogia, ed è importante come questa modalità per alcuni (Longhi, Arasse) possa avvenire a beneficio dello studio, dell’analisi, della critica, mentre per altri (Bergala) possa aiutare all’approccio con l’arte cinematografica e a stimolare un incontro, svolgendo dunque una funzione educativa. Daniel Arasse, riferendosi alla pittura, afferma che, nel momento in cui il dettaglio nascosto nell’insieme dell’opera viene messo a fuoco, viene scoperto, nulla sarà più come prima. Non si potrà più fare a meno di vederlo, al punto di far ruotare l’intera opera attorno a questo nuovo fulcro, fino a rischiare di leggere l’opera alla luce del dettaglio rivelato.

Ma il cinema sa sviluppare una sua consistenza temporale.

Produce l’effetto di una presenza che non è data soltanto dalla visione diretta ma anche secondaria, percezione derivata da un’ombra, da un altro personaggio, ma sempre riguardante la visione7. Passare dall’arte figurativa al cinema tenendo fermo e nutrendo questo tipo di stimolo, significa passare dal dettaglio (come oggetto ritagliabile nello spazio del dipinto), al frammento (che subisce e si nutre di uno sviluppo che possiede una durata nel tempo, accompagnando in tal modo l’aspetto visivo).

Cinematograficamente parlando, un’inquadratura, di per sé – da un punto di vista puramente visivo e spaziale -, è qualcosa di compiuto che al tempo stesso risulta essere un frammento di un insieme, ed è perciò in relazione con l’inquadratura precedente e con quella successiva, quindi è anche frammento temporale.

La scelta dell’inquadratura costituisce quindi un atto decisivo: definisce, seziona, incorpora ed esclude, pone dei limiti e dà vita a un atto creativo. A volte artistico. Fare un’inquadratura vuol dire essere già nel cuore dell’atto cinematografico, afferma Bergala8. E se con questa puntualizzazione ci muoviamo nella prassi del fare cinema, siamo pur sempre in un ambito educativo, laboratoriale, in cui si sperimenta il valore e la difficoltà della scelta, quella dell’inquadratura. Decidere di selezionare un “frammento del mondo” è un atto che deriva da scelte e comporta conseguenze. A questo proposito un punto di partenza primario non è insegnare come inquadrare ma saper trasmettere il valore dell’inquadratura sia teoricamente sia all’atto pratico: il senso e l’azione di quanto si sta facendo. Nell’ambito della pedagogia del frammento il punto cruciale è distinguere che il frammento è tale perché appartiene a una totalità che dovrà essere ricomposta. Deve quindi esserci la forte consapevolezza del rapporto necessario tra frammento e insieme.

Come Clark propone in un volume fotografico particolari dei dipinti della National Gallery e Longhi approfondisce con i suoi studenti opere del Quattrocento e Cinquecento italiano comparando e osservando dettagli di dipinti in relazione tra loro, così Arasse esamina alcuni secoli di storia dell’arte evidenziando quanto appassionante e quanto rischiosa possa essere la lettura di un dipinto visto in relazione al frammento (la sua fortuna realizzativa e critica e le avversioni che ha suscitato a seconda dei periodi storici e artistici). Bergala, dal canto suo, in ambito cinematografico, ha saputo applicare la formula degli FMR, frammenti messi in relazione mediante le opportunità di uno strumento ricco e duttile quale il DVD9.

Strumenti tecnologici fortemente connessi all’immagine e a un moderno modo di riprodurle, possono essere utilizzati per comprendere come prima non era possibile. Si tratta di sfruttare ciò che viene offerto da aggiornati strumenti (diapositive, fotografie, DVD, Mediainternet) dei quali si comprende l’utilità per una moderna visione e riflessione, un avvicinamento didattico e al contempo critico.

Abbiamo valutato quanto Longhi abbia fatto affidamento sull’impatto visivo delle diapositive e sull’immediatezza che questo mezzo permetteva, sul coinvolgimento degli studenti che affollavano le sue lezioni, sulla novità che il sistema di visione poteva avere in quel determinato periodo storico, oltre alla già citata questione della comparazione di dettagli di opere differenti. In sintesi, siamo al cospetto di modalità che insegnano a vedere. Cioè a pensare, poiché vedere diversamente, scorgere cose non avvertite a una prima visione, vuole dire ragionare di conseguenza in maniera diversa. Pensare le immagini nelle possibili varianti che presentano. Tramite il dettaglio e il frammento può avvenire una rivelazione, un’epifania sia dell’occhio sia della mente. Metterli in relazione apre orizzonti e sviluppa percorsi all’interno dell’opera alla quale appartengono e nei confronti di altre opere, permettendo un avvicinamento al momento creativo dal quale le opere sono scaturite.

Imparare a vedere le immagini significa anche prestare attenzione a quello che è immediatamente visibile, ma anche a quello che non lo è, sviluppando riflessioni tra visibile e invisibile, o meglio, con quanto è nascosto. Arasse, non solo nel saggio citato ma in altre opere, affascina e avvince il lettore mostrando quanto l’artista sembra aver dipinto, quasi volutamente, per non renderlo visibile, o non in prima battuta almeno, o per rinviarlo a uno svelamento successivo. Volendo scoprirlo però, bisogna saper guardare.

L’attenzione al dettaglio richiede una predisposizione critica e una coscienza del rapporto tra dettaglio e insieme, tra visibile e nascosto. Arasse, Clark, Longhi e Bergala, nei rispettivi ambiti d’intervento, hanno scelto di focalizzare l’attenzione sui dettagli e i frammenti a favore di una cultura dello sguardo capace di andare oltre ciò che semplicemente crediamo di vedere.

 

NOTE

1 D. Arasse, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, Il Saggiatore, Milano, 2007, p. 11.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 D. Trento, “Pasolini, Longhi e Francesco Arcangeli tra la primavera 1941 e l’estate 1943. I fatti di Masolino e di Masaccio”, in (a cura di) D. Ferrari e G. Scalia, Pasolini a Bologna, Pendragon, Bologna, 1998, p. 48.

5 “Un fenomeno come questo è eccessivamente soggettivo”, D. Arasse, op. cit., p. 13.

6 A. Bergala, L’ipotesi cinema. Piccolo trattato di educazione al cinema nella scuola e non solo, Cineteca, Bologna, 2008.

7 “Per lo storico dell’arte è molto importante capire per quale ragione il dettaglio si presti così bene alle fantasie e alle manipolazioni più perverse: molto spesso siamo noi a costituire il dettaglio nel momento stesso in cui crediamo di osservarlo. Molto spesso il dettaglio è preciso proprio perché si costituisce come elaborazione secondaria.” G. Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 88.

8 A. Bergala, op. cit., p. 157.

9 Ibidem., cap. 6, pp. 89-98.

 

 

Abstract

An inter-disciplinary and cross curricular itinerary where we can find compared different experiences of Pedagogy. A comparison between different fields of studies and between different areas of interest and research: the relation between art and cinema represents the starting point for this essay. The connection is analyzed through the attention to detail and fragment. In this sense, we can mention many examples: from Kenneth Clark to Roberto Longhi, from Alain Bergala to Daniel Arasse

Intervista a Giovanna Gliozzi, insegnante dell’ ISART – Istituto Superiore Artistico di Bologna.

di Sara Fiori

8 Marzo 2013

 “Da professoressa, qual è il suo punto di vista sul rapporto tra didattica e audiovisivi? Pur non occupandosene a livello disciplinare e curricolare in senso stretto, per quanto concerne il suo personale approccio all’insegnamento, e considerando il fatto che è docente in un liceo artististico, quanto influiscono l’interdisciplinarità e l’attenzione ai linguaggi dell’audiovisivo sul suo metodo e sulla sua esperienza quotidiana con i ragazzi?

 

In tutti questi anni ho insegnato in diverse scuole. Quando inizio a pensare a un progetto o a ideare un percorso in cui si intrecciano, ad esempio, letteratura e cinema, mi relaziono sempre all’indirizzo di studio con cui ho a che fare al momento. Negli indirizzi nei quali non è presente, nel curricolo, una parte artistica o relativa all’insegnamento delle arti, il riferimento al cinema può essere una ipotesi di lavoro, di supplenza, di sostituzione, un surrogato di percorsi che altrimenti non si praticherebbero, può essere solo uno spunto. In questa scuola, un liceo artistico, i miei sforzi si concentrano sulla scelta di opere o di parti di opere cinematografiche che possono essere interessanti dal punto di vista dei contenuti e dei collegamenti disciplinari, ma che al contempo si preoccupano anche di fornire delle esemplificazioni di natura compositiva. Quando mostro un film o un frammento mi chiedo sempre: “Che cosa significa l’aspetto compositivo nel cinema? E  in questo esempio specifico di cinema?”  Mi riferisco in tal senso sia a un percorso storico-critico, sia a percorsi che possono essere di tipo tematico. Ad esempio, approfondire alcuni grandi autori cinematografici del Novecento significa anche lavorare su una idea di estetica, con riferimenti più o meno espliciti all’arte figurativa o plastica. Un’altra cosa che personalmente mi interessa molto, in vista di una possibile professione futura per questi giovani, è cercare di dare rilievo anche alla macchina di produzione cinematografica in cui tante professioni entrano in gioco. Ecco quindi che faccio largo uso, durante le mie lezioni, di testi, di opere cinematografiche (o di loro parti) in cui l’importanza delle professioni tecniche diventa significativo.

In generale, lavoro tenendo presenti tre piani: l’uso dell’audiovisivo nell‘informazione, nella documentazione e nella narrazione. In tutti e tre i casi sono necessarie delle competenze di tipo linguistico-tecnico (che per il momento non sono richieste ai nostri studenti) perché è importante capire che gli audiovisivi hanno un linguaggio. Si tratta di un alfabeto, di una grammatica che può essere utilizzata in tante direzioni: ad un primo livello, per informare, poi per documentare e infine per narrare. La narrazione può essere espressione di correnti, di autori, di epoche, di progetti estetici o poetici, mentre la documentazione rappresenta effettivamente un altro piano di lavoro. Questo non ha certo la pretesa di essere un metodo “esaustivo”, ma mi serve per fornire a me stessa e ai ragazzi degli spunti.

 

Può farci qualche esempio di tali spunti?

 

Un esempio di stamattina: nelle classi quarte è prevista la lettura dei grandi autori teatrali del periodo compreso fra Cinquecento e Settecento. Non faccio leggere solo autori del teatro italiano perché secondo me la direzione didattica da seguire deve essere quella di una cultura perlomeno europea. Uno fra i grandi autori che le classi incontrano è senza dubbio Molière. I ragazzi leggono almeno due opere integrali, dopodiché ragiono in merito alle riduzioni cinematografiche di Molière. Dal momento che mi interessa soprattutto vedere che cosa significa mettere in scena Molière nel suo secolo, organizzo il lavoro sul film Molière realizzato da Ariane Mnouchkine, una delle fondatrici del “Théâtre du Soleil” nel 1978. Si tratta di un’opera stupenda che ricostruisce attraverso un lavoro filologico e al tempo stesso creativo, la figura di Molière come uomo di spettacolo del suo tempo, come artista del Seicento calato nella sua epoca, che vive determinati rapporti con il potere. All’interno dell’edizione in dvd, uscita nel 2004 in Italia in lingua originale con i sottotitoli, i ragazzi possono “addentrarsi”, guidati dall’insegnante, in una serie di materiali extra davvero interessanti per riflettere sul rapporto esistente tra progettualità, creatività e opera d’arte intesa come “soggetto”, soprattutto quando il soggetto non è originale. Per inciso, sono anche convinta che la lingua originale dei film vada valorizzata al massimo, che la parola e la cultura all’origine di ogni processo di creazione artistica rappresentano un aspetto importante da diffondere.

In questi approfondimenti è fondamentale la cura, da parte dell’insegnante, nella scelta dei materiali da mostrare. A proposito dell’esempio citato, non si è trattato di una opzione casuale, tutt’altro. Come dice Antonio Costa, i dvd contengono già un elemento di analisi al loro interno e gli extra devono avere una certa ricchezza. Un altro esempio in questo senso è La Bella e la bestia di Jean Cocteau, che ha extra editati benissimo, i quali, a loro volta, sono occasione di analisi di un altro testo, un metatesto, ovvero un documentario sull’opera, sull’autore e sulla produzione. Faccio tali esempi perché questo rappresenta un tipo di esperienza che può consentire agli studenti di affrontare il lavoro con gli audiovisivi in senso creativo, non finalizzato a un’opera di finzione, ma di  documentazione.

 

In generale come “rispondono” le classi a questi suoi spunti audiovisivi?

 

Benissimo. Da un lato si potrebbe pensare che sia piacevole per i giovani vedere filmati, perché gli studenti di oggi nascono e vivono in una civiltà di immagini, dall’altro è pur vero che poi l’interesse diventa autentico. Alcuni sulle prime sono interessati al fatto che “guardiamo” qualcosa in classe, poi però, man mano che la visione o il lavoro procede si appassionano. Quasi tutte le mie lezioni le faccio utilizzando materiali audiovisivi: non solo il cinema, ma anche la televisione. Proprio oggi ho fatto vedere in classe una puntata di Passpartout, a seguito de I compagni di Monicelli. Queste sono scelte, frutto di un lavoro di preparazione; è l’insegnante che deve ponderare le proposte e tracciare un percorso.

 

A proposito della recente riforma dei licei, sappiamo che per il Liceo Artistico è stato previsto un nuovo indirizzo di studio, il triennio Audiovisivo-Multimediale. Lei tra l’altro ha redatto ed elaborato per questa scuola una sintesi delle indicazioni nazionali sulla riforma: può spiegarci che cosa cambierà con questo nuovo indirizzo di studio? Quando verrà effettivamente attuato a Bologna?

 

Da settembre prossimo, a Bologna, saremo l’unica scuola ad avere l’indirizzo Audiovisivo-Multimediale. La riforma della scuola superiore prevede che esso venga inserito tra i possibili indirizzi del Liceo Artistico e noi lo abbiamo avviato. Come si può immaginare stiamo avendo enormi problemi rispetto alle strutture e alle attrezzature necessarie, però l’obiettivo è quello di fare prima dei laboratori di orientamento (quest’anno sono già stati fatti per tutti gli studenti del biennio con lo scopo di stabilire per ciascun alunno quale potrebbe essere l’indirizzo successivo nel triennio.) Inoltre, per quanto riguarda il triennio Audiovisivo, ci saranno degli aspetti di natura culturale (con tutte le discipline di area culturale generale, come la letteratura, la storia, la storia dell’arte, la filosofia che manterranno lo stesso numero di ore, ma che acquisteranno – immaginiamo – un taglio differente), ci saranno anche insegnamenti che riguarderanno maggiormente le competenze di tipo tecnico-linguistico. Tuttavia, c’è da sottolineare purtroppo il fatto che la riforma ipotizza più la teoria della tecnica che non la tecnica in senso stretto.

 

In prospettiva, secondo lei, quali potrebbero essere le strade future, o meglio “le competenze in uscita” legate a questo indirizzo specifico? Quali figure professionali potrebbero iniziare a delinearsi? Un ragazzo di 19 anni diplomato seguendo questo nuovo triennio potrà, a suo avviso, avvicinarsi a professionalità più “tecniche”?

 

Secondo me sarà difficile. I ragazzi, come già accade adesso, potranno prendere altre strade oppure proseguire con studi universitari, con indirizzi più o meno coerenti, dall’Accademia al Dams. Non prevediamo in tal senso grossi cambiamenti; immaginiamo che uno studente uscito di qui possa intraprendere una strada molto teorica di tipo critico (in aree universitarie come Lettere, Dams, Filosofia eccetera), oppure le già citate Accademie. Una alternativa potrebbe essere a Ferrara la triennale con specialistica nel settore audiovisivo, un indirizzo tecnico, per formare tecnici del settore specifico dell’audiovisivo, dove la dimensione laboratoriale è più significativa: ci sono già studenti che, una volta usciti dal liceo, hanno fatto questo percorso e che dopo la laurea hanno trovato uno sbocco professionale nelle varie emittenti, soprattutto televisive.

 

Per quanto riguarda gli insegnamenti, avviando questo nuovo triennio, è stato proposto di “riaprire” le graduatorie con la possibilità di assumere figure professionali competenti negli specifici settori disciplinari e nell’audiovisivo?

 

Noi insegnanti ancora oggi non siamo in grado di rispondere a questa domanda, perché il Ministero tutt’ora non ha identificato delle classi di abilitazione. Ci sono dei riferimenti al passato, che però in molti casi non hanno alcuna ragion d’essere rispetto alle competenze effettive dei docenti e si è completamente vanificato un percorso a tal proposito. Mi riferisco al “Piano nazionale per la promozione della didattica del cinema e degli audiovisivi” varato dal Ministro Berlinguer nel 1999 che prese avvio effettivo nel febbraio del 2000 e che durò circa una decina d’anni, con vicende alterne. In Emilia Romagna fu affidato operativamente all’ agenzia di ricerca didattica IRRE (chiusa proprio quest’anno) e al Dams. Allora facevo parte del comitato tecnico-scientifico, insieme a personalità competenti, tra i quali Roy Menarini e Claudio Bisoni (che oggi lavorano al Dams) e soprattutto Antonio Costa, il responsabile più autorevole che coordinava questa operazione. Il nostro lavoro si concretizzò in un piano molto interessante che prevedeva la formazione dei docenti (in parte teorica, in parte laboratoriale), delle cosiddette “ricadute didattiche” di laboratori in aula con gli studenti, che ho fatto proprio in questa scuola, e che sortirono notevoli effetti di interesse tra i ragazzi, perché ci furono i primi diplomati che dopo il liceo andarono al Dams o a Ferrara a studiare, ed infine dei momenti di raccordo seminariale annuali dove si rimetteva a punto il progetto. Questo piano stabiliva che si formassero da un lato delle professionalità di docenti già in servizio e dall’altro che si contemplasse il fatto che i percorsi audiovisivi entrassero nelle scuole a tutti gli effetti (e questa è l’unica cosa che si è consolidata) e si regolamentasse formalmente la professionalità di chi usciva dai percorsi formativi del Dams (e dell’indirizzo Cinema in particolar modo). Questa ipotesi di lavoro si è concretizzata nella formazione decennale di una piccola parte di docenti, però non ha trovato la sua traduzione legislativa, operativa e strettamente scolastica. Ce l’avrà, speriamo. Personalmente con tutta probabilità insegnerò Letteratura Italiana nell’indirizzo Audiovisivo, quindi un approccio che per me è già abbastanza “naturale” troverà una sua ragion d’essere più fondata, però non potrò mai insegnare i linguaggi specifici.

 

Parlando di cinema come linguaggio, a livello laboratoriale ed operativo, le è mai capitato di sperimentare con le sue classi? Di realizzare video?

 

Ai miei studenti assegno degli esercizi di tipo audiovisivo. Spesso i ragazzi, avvalendosi dell’apporto anche di professionisti esterni, realizzano lavori di documentazione video di attività didattiche o progetti svolti durante l’anno scolastico. A volte si tratta anche di esperimenti “catastrofici” dal punto di vista della qualità, ma non è importante. E’ come una scrittura.

 

Ci può fare qualche altro esempio di esercizio audiovisivo?

 

Recitare un sonetto di Dante con vincoli e regole (come la collocazione in una cornice di tipo storico, una determinata durata): l’esercizio si fa in gruppo, con la videocamera. Oppure con il video Il giardino dei finti confini dove gli studenti documentano l’attività laboratoriale di discipline plastiche svolta in un anno di scuola, a partire da un concetto e da una progettualità specifica (un giardino di piante finte, in questo caso). Inoltre gli esercizi possono anche avere un aspetto più scolastico, ad esempio, facendo un lavoro di individuazione delle sequenze più significative a partire da un input dato e circostanziato come, per citarne un paio, l’uso del fuori campo, o quello del fuori vista.

 

Secondo lei un insegnante può educare al cinema e trasmettere il valore estetico di un film, formando il senso artistico dei giovani? Lei dà anche suggerimenti di visione? Fa vedere film ai ragazzi proiettandoli in classe?

 

Assolutamente sì, lo si deve fare. Nelle mie ore di lezione si va dalla proiezione dell’opera completa, al frammento filmico. Il tutto avviene in relazione al percorso letterario di un anno: non necessariamente viene prima la letteratura, spesso per far compiere ai ragazzi un percorso parto dal film, perché nella mia testa l’input arriva dalle immagini. Ad esempio, mi interessa mostrare come uno stesso soggetto preesistente nella letteratura storica come il Macbeth di Shakespeare viene interpretato nel Novecento a seconda dell’epoca in cui il film viene realizzato. Mostrandone varie sequenze, tratte da versioni cinematografiche diverse, posso anche portare avanti un discorso analitico di tipo tecnico. Cerco di fare con il cinema ciò che porto avanti anche con la letteratura: ci sono opere che si leggono per il piacere (o il dispiacere) di leggerle, per avere la visione complessiva dell’opera, per la trama e la sua costruzione, per la lingua, per il contesto storico e per l’appartenenza a una corrente, in tutti questi casi le leggiamo per intero; invece ci sono molte opere che ci interessano per qualcuno di questi aspetti, per cui ne vediamo solo delle parti e nell’analisi di quei frammenti mettiamo in evidenza gli aspetti che riteniamo peculiari dell’opera rispetto all’obiettivo che abbiamo. Secondo il mio modus operandi per gli audiovisivi e il cinema è la stessa cosa. Se ad esempio voglio far vedere l’utilizzo della dissolvenza al nero (una questione linguistica), prenderò quattro o cinque esempi ed essendo all’interno di un percorso liceale e non universitario, non farò una analisi critica, bensì proporrò un percorso di tipo storico. Altro esempio: posso lavorare sui generi. Nelle classi terze è l’anno della Commedia di Dante e del Decameron di Boccaccio: posso decidere – e non lo faccio mai a priori, dipende sempre dalla classe con cui ho a che fare – ad esempio di partire, nel mio percorso dalla lettera in cui Dante spiega perché chiama l’opera Commedia, per poi arrivare a Tootsie di Pollack in cui i topoi della commedia plautina sono descritti e messi in scena nella dimensione della soap opera televisiva che i ragazzi conoscono nell’ambito della loro esperienza quotidiana.

 

C’è anche uno sforzo, una volontà di continua commistione tra presente e passato

 

Certo, questo ha un intento pedagogico: se abbiamo Plauto “laggiù in fondo”, poi Dante, sempre molto lontano per i ragazzi, poi un film di Pollack che, seppur realizzato negli anni Ottanta, per dei giovani nati alla fine degli anni Novanta sa già un po’ di “preistoria”, in questo caso ci mostra comunque New York in un mondo in cui c’era già la televisione. E poi Un posto al sole che va in onda tutte le sere. A questo punto c’è la possibilità, l’abilità un po’ panpedagogica, di tenere insieme passato e presente. Avvicinandoli possiamo fare in modo che l’arte, la letteratura, la storia parlino ai ragazzi.

La mia lezione è proprio questa: provare la gioia di godere di tutto ciò di cui possiamo appassionarci, ma di cui, se non ci parlasse e se non ci comunicasse qualcosa, saremmo difficilmente in grado di godere. ”

 

Sara Fiori