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Ernest J. Gaines, Una lezione prima di morire, Mattioli 1885, 2010

Ernest Gaines

di Fabio Matteuzzi.   

Non possiamo prendere in considerazione un percorso educativo restringendolo esclusivamente all’ambito scolastico. Il rapporto e il confronto, imposto o perseguito, tra insegnante e allievo, è sì cruciale, ma non esaurisce l’ambito didattico: lo precede e lo oltrepassa, anche se è nella istituzione che trova una forma e la forza di una giustificazione politica e ideale. E’ una base, un elemento irrinunciabile e tuttavia insufficiente: deve avere altri nutrimenti, aprirsi al mondo e con esso confrontarsi, come un nuovo modo di vedere gli orizzonti, o meglio ancora, di dare coscienza dell’esistenza e della natura degli orizzonti. Dove questo rapporto riesce a essere autentico, entrambi, alla fine, se di fine si può parlare, sono cambiati, hanno acquisito una conoscenza, se non un sapere, maggiore, sono persone diverse. A tutto questo mi fa pensare un recente romanzo di Ernest J. Gaines dal titolo Una lezione prima di morire, edito da Mattioli.

La sinossi può essere raccontata in breve. Ambientato in un piccolo paese del sud degli Stati Uniti negli anni Quaranta è la storia del sedicenne Jefferson, ragazzo nero accusato ingiustamente di omicidio. Capitato nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, viene giudicato e condannato a morte da una giuria di bianchi che lo considera un animale. In questa comunità vive Grant Wiggins, giovane insegnante, tornato nella piantagione dove è cresciuto, tra la sua gente, per insegnare a bambini che avranno ben poche opportunità nella vita. A lui si rivolgono la tutrice di Jefferson, il reverendo e la propria zia che con la tenacia di chi non ha nulla da perdere lo convinceranno ad accettare un incarico giudicato a prima vista impossibile. La sua missione sarà quella di dare un’educazione al giovane Jefferson per fargli affrontare la morte come un uomo. Wiggins dovrà dare a questo ragazzo sbandato e senza una famiglia l’educazione che non ha mai avuto e che non ha mai cercato per dimostrare, a quelli che l’hanno considerato colpevole, umiliandolo e insultandolo, che quello che stanno per uccidere è un uomo, che come tale chiede di essere considerato. Prima ancora che l’innocenza, è una lotta per il riconoscimento della dignità. La strada per la dignità passa, dovrà passare, per l’educazione. Wiggins e Jefferson, costretti dalle mura carcerarie, dai ritmi delle visite limitate da orari definiti,  dovranno inventarsi un modo personale e irripetibile di essere maestro e allievo. Non ci credono, ma dovranno provare ad avere fiducia che questo sia possibile. Se fallissero ciò costituirebbe l’inutilità della loro esistenza, di essere umano, per Jefferson, di insegnante per Wiggins.

In questo mondo contadino del profondo sud degli Stati Uniti, apparentemente immutabile, i destini sono già scritti. Non solo la vicenda di Jefferson, ma anche quella di tutti i personaggi, bianchi e neri, di questa comunità. Ognuno ha la propria strada segnata, indicata da una radicale separazione razziale e sociale. Così l’unico scarto, l’unica differenza che può manifestarsi (tale da essere oggetto anche di una scommessa tra lo sceriffo e un altro dei personaggi di contorno che hanno certezze preconcette sulla colpevolezza del ragazzo, nonché considerazioni razziste su di lui) è proprio sulla possibilità che Jefferson possa essere “educato”, che possa ricevere e fare propri degli insegnamenti che non ha potuto avere mai prima di allora. Un insegnamento che non servirà per un futuro, ma per il presente, il suo e quello di altri ragazzi come lui. Un insegnamento che non è un fatto intimo e personale, ma pubblico. Intimo e nello stesso tempo pubblico, perché pubblica è la considerazione che i bianchi hanno di lui, perché pubblica è stata la sua condanna. Più volontà che erudizione, più ciò che si è perso e non si è potuto avere che non le possibilità sfruttate o perdute. La fine è scritta fin dall’inizio. Il ragazzo è condannato a morte e nessuno gli toglierà questa condanna. Nessuno chiede più che venga liberato. Nessuno nemmeno si sogna di potere dimostrare la verità, ossia che Jefferson è innocente, perché l’opportunità e il pregiudizio hanno preso il posto della verità. In questo mondo ingiusto, a un giovane insegnante, ormai anch’egli deluso e privo della speranza che il proprio lavoro di insegnante possa effettivamente servire a qualcosa, possa davvero migliorare le condizioni dei piccoli abitanti neri del suo paese di origine, viene chiesto di fare quello che potrebbe sembrare un atto inutile, e che invece risulterà in tutta la sua potenza: dare un insegnamento al giovane ignorante Jefferson affinché possa affrontare la morte. E’ un paradosso. L’insegnamento serve per preparare al futuro, a una nuova vita. Per Jefferson questa non potrà che essere una dimostrazione di ciò che avrebbe potuto avere e non ha mai avuto, di ciò che avrebbe potuto essere (e con lui tanti altri) e non potrà mai essere. Ma questo insegnamento in realtà servirà da esempio e non sarà fine a se stesso. Sarà un insegnamento per la comunità dei bianchi quanto dei neri. Sarà un insegnamento anche per Grant Wiggins, per l’insegnante che a un certo punto capirà di stare facendo la cosa giusta. Forse lui stesso aspettava questo momento. La nuova vita non sarà più ormai quella di Jefferson ma di tutti coloro che rimangono e non potranno dimenticare quello che è successo: l’animale, il porco, ha camminato fino alla sedia elettrica come un uomo. Prima di morire ha lasciato un quadernetto per il maestro Wiggins dove ha segnato i suoi pensieri. Scritti in brutta calligrafia, pieni di errori grammaticali, che tuttavia dimostrano che dietro di essi c’era un giovane che pensava, che soffriva, rabbioso, pauroso e sensibile.

L’autore conosce questo ambiente. Ci è nato. Ormai adulto, scrittore affermato, è tornato proprio lì a vivere, nella piantagione che l’ha visto nascere a Pointe Coupee Parish, compiendo un percorso a ritroso, in parte analogo a quello dell’insegnante del suo romanzo, sennonché, Gaines ritorna quando è uno scrittore ormai famoso. Gli anni sono passati e certamente dei cambiamenti ci sono stati, dagli anni Quaranta, in cui è ambientato il romanzo, a oggi. Gaines sa rievocare con asciuttezza quel periodo, quel clima, quei sentimenti, quel mondo sonnolento della piantagione in cui la dignità era soffocata, in cui i diritti erano solo per pochi, e quand’anche quello all’istruzione era offerto anche ai più deboli, si configurava comunque un diritto frustrato per la mancanza di futuro dovuto al razzismo che divideva il mondo in buoni e cattivi, in innocenti e colpevoli. Il maggiore insegnamento, in questo ambiente, è allora il conseguimento della dignità.  E il caso estremo dell’istruzione di fronte alla morte, invece che di fronte alla vita – soprattutto per un adolescente – viene presentato e trattato come esemplare.

Grant Wiggins sa (tutti quanti sanno) che i bambini cui insegna, lui stesso, la ragazza che ama, sono figli e nipoti degli schiavi. Il percorso per togliersi di dosso questa eredità passa allora attraverso le mani di tutti questi personaggi che Gaines sa tratteggiare con precisione: la zia, il reverendo, la tutrice del ragazzo, lo stesso Wiggins, ma soprattutto è nelle mani di Jefferson.  Nelle mani di colui che è il più debole, la vittima. E’ in lui, che una comunità offesa e umiliata, può infine trovare un esempio per riscattarsi.

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