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Piccoli appunti per una nuova visione di “Le mépris” di Jean-Luc Godard

_Bardot

 

di Fabio Matteuzzi

Alla presentazione della versione restaurata di Le Mépris (Il disprezzo, 1963), film che Jean-Luc Godard trasse dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, tenutasi presso il Cinema Lumière di Bologna, Alain Bergala, introducendo la proiezione del film, ha messo in evidenza alcuni aspetti interessanti, utili sia per contestualizzare il film di Godard, la sua realizzazione, sia per ricordare le difficoltà con la produzione, i tagli che il film dovette subire in particolare nella versione italiana.

Per fare questo è partito dalla citazione di un film come Le mystère Picasso, documentario che Henri-George Clouzot realizzò nel 1956, con la partecipazione dello stesso pittore. In particolare Bergala ha citato una sequenza, ben nota, in cui vediamo Picasso dipingere, nelle varie fasi del suo atto pittorico fino a quando l’immagine (cinematografica) si sofferma su un’immagine (pittorica) mostrandola così come essa è stata concepita. Il quadro, a questo punto sembra definito, “perfetto”, l’opera terminata. Tuttavia si tratta solo di una pausa. Picasso interviene ancora, modificando quello che aveva appena realizzato e alla fine ci troviamo di fronte a qualcosa di differente, che possiamo considerare meglio (o peggio) di quanto visto in precedenza.

Godard – afferma Bergala – fa la stessa cosa. Negli anni Sessanta, Godard affronta il gesto cinematografico nello stesso modo: frantumando i piani. L’opera che viene portata a compimento non è dunque che una realizzazione tra le tante possibili. La morale che si può trarre da questa concezione, da questa modalità del fare cinema, è che non esiste ordine senza disordine, non c’è armonia senza disarmonia. L’unica eccezione, nella carriera di Godard, tuttavia è proprio Le mépris”. “È un film perfetto, un film a cui Godard non lascia il potere di autodistruggersi. È un oggetto, una scultura che si erge indipendentemente dalla storia, vive nella sua perfezione.” Perché è perfetto? In primo luogo bisogna considerare le condizioni della produzione. Godard non ha mai realizzato un film all’interno della produzione cinematografica come accaduto in questo caso. I finanziamenti sono arrivati più consistenti perché tra gli interpreti c’era Brigitte Bardot e questo è uno degli aspetti di una costruzione economica bizzarra, considerando che si tratta di un film di Godard. Il finanziatore ufficiale era Joe Levine (anche se era Carlo Ponti che deteneva i diritti per la trasposizione cinematografica dell’opera letteraria di Moravia), questo comportava diritti per la distribuzione negli USA, e rispetto al finanziamento iniziale, la partecipazione della Bardot, decuplicò le risorse disponibili, anche se poi furono utilizzate proprio per la presenza dell’attrice più che per il film nel suo complesso.

In secondo luogo Godard scrive per la prima volta una sceneggiatura tradizionale, obbligato a scrivere e seguire scene organizzate attraverso la scrittura. Bizzarramente Godard era contento di questo, e sul set c’era un’atmosfera tranquilla.

 

Presenze

In terzo luogo la presenza della Bardot. Fu Brigitte Bardot a scrivere a Godard “mi piacerebbe fare la parte di Camille”. Ora, bisogna considerare che per il gruppo dei Cahiers du Cinéma, battagliera rivista in cui Godard si formò cinematograficamente, la Bardot era stata la rivelazione di un’attrice che si muoveva e parlava in modo nuovo. La sua presenza quindi non poteva non mutare totalmente la concezione del film. La sceneggiatura scritta prima dell’irruzione di Brigitte Bardot si sviluppava secondo un andamento più attento alla psicologia dei personaggi, in particolare della coppia protagonista. Invece “la presenza della Bardot imponeva di essere presa in blocco, qualcosa nei cui confronti ogni interazione veniva meno, come si trattasse di una scultura. Non si entra nella psicologia del personaggio da lei interpretato. Non è possibile entrare nella sua testa così come nei suoi sentimenti”.

Nel film, in alcune scene ambientate nell’appartamento romano della coppia Piccoli-Bardot, c’è una statua. In un momento in cui il personaggio interpretato da Piccoli è arrabbiato a seguito di un alterco con la moglie, dà un colpo alla testa della statua, colpo idealmente diretto a Camille e alla difficile comprensione del suo atteggiamento per Piccoli.

Ma, ha proseguito Bergala. la situazione provocata dalla presenza della Bardot permette di sfuggire dai vincoli del romanzo di Moravia. Permette la nascita di una nuova Camille, meno legata al personaggio letterario in grado di nascere, dunque, cinematograficamente.

D’altro canto, un’altra presenza incombe in questo film, quella di Fritz Lang, di un vero monumento della storia del cinema, che Godard ama. Lang non è qui un personaggio, è proprio lui, figura reale e “divina” al di sopra dei piccoli eventi degli esseri umani. Detentore di un sapere che non può essere dato se non a prezzo di una continua trasformazione e di compromessi.

Quarto: Villa Malaparte, ideata dallo scrittore Curzio Malaparte nell’isola di Capri, è il luogo in cui si svolge la seconda parte del film. Non si tratta di un’abitazione, ma di una ‘scultura’ posta sul paesaggio, appoggiata su una roccia sul mare. Impossibile immaginarla in altro luogo. La sua scelta per Le Mépris è sostanzialmente casuale. Godard non amava fare ricerche sulle locations, vi mandava degli assistenti. Anche quando queste venivano scelte non vi si recava prima della fase delle riprese. Nella fase preparatoria del film Godard sapeva solo che voleva una villa per le riprese e chiese a Charles Bitsch, assistente alla regia, di occuparsene. Allora la villa era nota solo agli architetti. Bitsch ne rimane colpito e si reca in Comune per maggiori informazioni. Lì scopre che alla villa erano stati apposti i sigilli giudiziari. Attraverso Carlo Ponti paga perché possano essere tolti i sigilli temporaneamente, per il periodo necessario alle riprese. Fu solo dopo la realizzazione del film che la villa è diventata famosa anche per i non addetti ai lavori.

C’è una questione che riguarda la modernità tra la villa e il film di Godard. Alcuni aspetti sono presenti già negli scritti di Malaparte: niente cemento né mattoni, solo pietra viva. “Questo è il cinema di Godard” afferma Bergala “Esattamente l’approccio di Godard, un blocco dietro l’altro.”

Godard del resto è l’unico a occuparsi della sceneggiatura, l’unico ad avere in mano la trasformazione di un testo letterario in una sceneggiatura che poi si trasformerà ancora in fase di ripresa. Godard accompagna il testo, la storia, se vogliamo, e i personaggi attraverso i corpi degli attori, attraverso il suo stesso corpo prestato al film come assistente alla regia di Fritz Lang, autore del film di cui il film stesso parla, cioè l’Odissea. Nel fare questo si nasconde, lasciando a Michel Piccoli (e al suo personaggio di scrittore-sceneggiatore) l’onere e l’onore di parlare con Fritz Lang delle possibili interpretazioni dell’Odissea.

Presentare un film ormai entrato nella storia del cinema impone di saperne parlare con precisione e leggerezza. Inevitabilmente si affaccia un legame che è più di una citazione: Viaggio in Italia di Roberto Rossellini. La natura, il mediterraneo e la sua luce. Mediterraneo che comporta la presenza di antichi dèi (anche attraverso la scusa della realizzazione di un film tratto dall’Odissea), Nettuno su tutti. Quel Nettuno che Godard riprende partendo dalla mano e proseguendo in un movimento circolare, avvolgente. Sembra che la mano alzata della raffigurazione del dio pagano segni la vita degli esseri umani. Ma anche la presenza, in Le Mépris come in Viaggio in Italia di una coppia di stranieri che vivono, sia pure per motivi differenti, la crisi del loro rapporto di coppia, in un paesaggio che non appartiene loro e con il quale è difficile rapportarsi, difficile dialogare, un paesaggio che spiazza e in cui viene alterato il normale rapporto di coppia, presentando quelle “affinità generiche” come dice Bergala che non sono casuali.

Film sul cinema stesso infine, fino al punto che la base narrativa di partenza, il romanzo di Moravia – piuttosto ingombrante per la celebrità dell’autore, che già per altro aveva suscitato interesse da parte del cinema (nel momento in cui Godard gira Le Mépris già una decina di film sono stati tratti da altrettanti opere di Moravia) – è in secondo piano, rispetto alla presenza di Lang, ovviamente, ma anche di Jack Palance, che simboleggia la presenza (e l’amore di Godard) del cinema americano a cui va aggiunto il confronto con Rossellini.

Si può dire che la matrice principale del lavoro godardiano sia Viaggio in Italia di Rossellini. All’estero possono dire che Le mépris ne sia un remake. Per Godard Viaggio in Italia è stato uno dei più importanti della sua formazione giovanile. Realizzare il Disprezzo quindi non significa tanto confrontarsi con l’opera letteraria di Moravia ma seguire i passi di Rossellini. Così come in Viaggio in Italia, personaggi provenienti da paesi diversi parlano ognuno la propria lingua, così anche Godard privilegia questo aspetto. Le sceneggiature inoltre hanno affinità generiche: una coppia straniera in Italia e un appartamento in vendita. Inoltre c’è qualcosa di nevrotico nelle riprese che ricorda Stromboli, altro film rosselliniano. Si tratta appunto di similitudini, non di citazioni,  di affinità generiche che tuttavia sono sufficienti a fare sì che Godard nel suo film possa ripercorrere le orme di un suo ideale maestro, ben al di là di ciò che lo legava al testo moraviano.

 

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Regia e sceneggiatura: Jean-Luc Godard

Soggetto: dal romanzo Il disprezzo di Alberto Moravia

Fotografia: Raoul Coutard

Montaggio: Agnès Guillemot

Musica: Georges Delerue

Interpreti: Brigitte Bardot (Camille), Michel Piccoli (Paul), Jack Palance (Jeremy), Georgia Moll (Francesca), Fritz Lang (sé stesso), Jean-Luc Godard (assistente alla regia), Raoul Coutard

(operatore), Linda Véras (sirena).

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